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Perché l’umanesimo è nato in Italia

di Gabriele Pedullà

Intellettuali laici

5' di lettura

C’erano una volta gli scopritori di continenti. Poi, esauriti i continenti, è venuta la stagione degli scopritori di isole e atolli. Nel mondo digitalizzato di Google Earth più nessuna sorpresa rimane però possibile: da decenni le ultime aree bianche delle vecchie carte sono state riempite di colori, segni e parole; sulle mappe nessuna regione della terra porta più la scritta «hic sunt leones», riservata un tempo alle lande inesplorate.

Qualcosa di simile sembra valere per la cultura umanistica, dove non c’è epoca storica che non sia sottoposta a studi sempre più minuziosi e particolareggiati. E, se questo specialismo non esclude la possibilità di rivedere – anche in maniera radicale – i giudizi consegnateci dalle generazioni precedenti, rimane innegabile che l’età eroica sia ormai conclusa. Grande affresco e ricerca originale sembrano definitivamente disgiunti e imprese titaniche quali la Storia della letteratura italiana di Tiraboschi, l’Histoire de France di Michelet o l’Iter italicum di Kristeller appaiono, indiscutibilmente e per sempre, alle nostre spalle.

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Eppure, al tempo stesso, di tanto in tanto il miracolo si produce ancora. È oggi il caso de L’eccezione italiana: L’intellettuale laico nel Medio Evo e l’origine del Rinascimento di Ronald G. Witt, apparso in inglese nel 2012 e ora meritoriamente tradotto da Viella. Il volume di Witt (che dopo una lunga malattia si è spento all’età di 84 anni lo scorso 15 marzo, giusto in contemporanea con la pubblicazione del volume) è il risultato di quasi quarant’anni di lavoro e costituisce la prima parte di un imponente dittico, il cui secondo tassello era già apparso nel 2000 in inglese e nel 2005 in italiano presso Donzelli con il titolo Sulle tracce degli antichi: Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo. Prese assieme, le due opere offrono infatti la prima ricostruzione analitica, condotta verificando centinaia di manoscritti in tutta Europa, della cultura neolatina in Italia tra l’anno 800 e il 1420 circa. Oltre mezzo millennio di storia: che oltretutto “regala” alla nostra tradizione letteraria qualche secolo rispetto a quella normalmente insegnata nelle scuole.

Questo grandioso affresco non è però un manuale. Alla base della ricerca di Witt troviamo infatti una domanda ambiziosa a fare da filo conduttore: perché quell’umanesimo che costituisce probabilmente la più importante svolta nella cultura europea prima del Romanticismo è sorto in Italia? Come mai proprio qui si è sviluppato un nuovo senso della storia e la consapevolezza di essere diversi da quegli antichi rispetto ai quali, invece, gli uomini medievali si erano percepiti come legittimi continuatori? Per quale motivo non è stata la Francia, dove esisteva una rigogliosa tradizione di poesia in latino, a riportare in vita le forme grammaticali e metriche dei classici? Quale è stata insomma «l’eccezione italiana» che ha permesso che qui, e non altrove, si sviluppasse un atteggiamento verso il passato che poi ha informato l’Europa intera per tutta l’età classicista, almeno sino alla fine del XVIII secolo?

Già Sulle tracce degli antichi sovvertiva alla radice lo stato delle nostre conoscenze. A cambiare erano infatti, tutte assieme, la cronologia (l’umanesimo non è cominciato con Petrarca, ma due generazioni prima con Lovato Lovati e Albertino Mussato, alla fine del Duecento), la geografia (il centro propulsore non è stato Firenze, da cui il movimento si è poi diffuso, ma Padova), l’origine disciplinare (il nuovo atteggiamento verso il latino non sarebbe nato dagli studi di retorica, come a lungo si è sostenuto, ma da quelli di grammatica).

Rispetto a questo quadro, risalendo indietro di cinque secoli, L’eccezione italiana aggiunge un tassello decisivo. La grande svolta prodottasi in Veneto è stata il frutto di una peculiarità del sistema educativo a sud delle Alpi. Mentre in tutto il resto dell’Europa l’insegnamento era infatti interamente in mano agli uomini di Chiesa, Lovati e Mussato poterono guardare con occhi nuovi alla poesia antica perché in Italia la formazione dei giovani non era monopolio dei religiosi. È stata dunque l’educazione laica a rendere possibile quel senso di discontinuità storica che da quel momento avrebbe fatto parte integrante dell’identità europea.

L’eccezione italiana non è volume del quale si possa sensatamente parlare in poche pagine. Per dare un’idea della sua complessità, basterà dire che le riviste accademiche si sono trovate spesso di fronte al problema di non trovare recensori adeguati, dal momento che nessuno studioso padroneggia da solo tutte le competenze su cui si appoggia ricerca di Witt (codicologia, filologia, paleografia, storia del latino, teologia, diritto, retorica...). A rendere il compito ancora più arduo si aggiunge il fatto che Witt (che inizialmente si era orientato verso la storia francese) ragiona spontaneamente in una prospettiva comparata, collocando sempre la vicenda italiana sullo sfondo europeo. Per parlare della edizione inglese, una rivista come «Storica» ha optato così per una tavola rotonda di 40 pagine, affidando il compito di discutere le tesi de L’eccezione italiana a tre diversi specialisti.

Negli ultimi decenni pochi libri di storia hanno riscosso altrettanti consensi del dittico di Witt, tra cui i prestigiosissimi premi della American Historical Society, della Renaissance Society of America e della American Philosophical Society (tutti nel 2001) e la medaglia d’oro della Medieval Academy of America (nel 2014). Eppure, questa storia a lieto fine non è stata, si presume, una storia in discesa. Ed è qui, credo, che si può trarre da questi volumi una lezione più generale.

Quando nel 2000, all’età di 68 anni, Witt ha pubblicato Sulle tracce degli antichi era un accademico apprezzato per una biografia di Coluccio Salutati (1983) e alcuni importanti articoli: un ottimo studioso che era stato frenato nei suoi progetti, si poteva supporre, dai gravosi impegni dell’insegnamento. Non era così, perché – in silenzio e un poco oscuramente – Witt stava portando avanti la sua impervia ricerca. E viene in mente una testimonianza di Claude Lévi-Strauss sulla angoscia provata al principio degli anni Sessanta, quando ormai da decenni accumulava materiali per quelli che sarebbe divenuti i quattro volumoni di Mythologies (1964-71). Dove fermarsi? Come evitare, insomma, di fare la fine di Ferdinand de Saussure, il quale non era riuscito a chiudere in un disegno coerente l’enorme quantità di appunti raccolti nel corso di un’intera vita sul ciclo dei Nibelunghi?

Più di una volta una paura analoga deve aver attanagliato anche Witt, vedendo che la meta prefissatasi, invece di farsi più vicina, con il crescere delle sue conoscenze pareva allontanarsi. Per questo, ben oltre i confini disciplinari, la sua pazienza e la sua tenacia offrono oggi un modello di probità intellettuale che merita di essere additato a esempio a tutti gli studiosi in erba. L’era dei titani non è necessariamente finita. E viene in mente un sonetto di Keats sulla sua scoperta della traduzione dell’Iliade ad opera di Chapman: «Simile ad uno che nei cieli scruta/ io mi sentii, quando un nuovo pianeta / nuota sotto il mio sguardo; o al valoroso / Cortés quando fissò con occhi d’aquila / il Pacifico – e tutti i suoi compagni con febbrile incertezza si guardarono –/ silente, sopra un picco in Darién».

L’eccezione italiana non è sempre un libro di facile lettura. Ma, per 59 euro, oggi anche un non specialista dell’umanesimo può godere per qualche pomeriggio del raro piacere di scrutare un oceano sinora sconosciuto e di capire che cosa può essere una disciplina come la storia quando la si pratica ai livelli più alti.

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