Gli equilibri del dopo Covid

Perché il Novecento è finito soltanto con la pandemia globale

di Giuseppe Lupo

(Adobe Stock)

5' di lettura

I fatti dolorosi di quest’ultimo anno e mezzo, da cui lentamente (ma con ottimismo) stiamo uscendo a piccoli passi, ci obbligano a rivedere alcune categorie interpretative che con gran successo avevano dato un senso alle stratificazioni storiche degli ultimi decenni del secolo scorso e perfino a quelle del nuovo. Alla luce di una tanto affascinante quanto convincente ripartizione della contemporaneità, formulata da Eric J. Hobsbawm nella sua opera più nota, Il secolo breve (1994, tradotto in Italia per Rizzoli nel 1997), eravamo tutti convinti di essere approdati a un post-Novecento da almeno un trentennio, da quando cioè, con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e il consequenziale disfacimento dell’enorme galassia sovietica, era terminata l’epoca delle ideologie e, insieme con essa, era messa in atto la «distruzione del passato – scriveva Hobsbawm –, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti».

Il mondo che si era frantumato sul limitare degli anni Novanta riverberava con la sua carica apocalittica sull’intero secolo, percorrendolo a ritroso fino alla Rivoluzione d’ottobre, la grande svolta che metteva fine alla Russia zarista, perché proprio da lì, da quell’evento carico di significati, accaduto nel cuore del primo, grande, conflitto mondiale, si era generato il tempo che sarebbe venuto dopo, l’età della catastrofe e l’età dell’oro, come Hobsbawm denominava i decenni delle successive dittature e della rinascita economica. Questa chiave interpretativa favoriva l’immagine di un arco di anni racchiuso tra due parentesi, dal 1917 al 1989, intenso ma breve, troppo breve per essere stato profondamente interessato dai fenomeni della modernità e scosso da modifiche dalla portata irrinunciabile. Erano soprattutto tre i segnali che conducevano lo storico britannico a effettuare tale periodizzazione: il ruolo periferico in cui la Grande Guerra aveva relegato l’Europa a vantaggio di una indiscussa leadership statunitense; l’avvento di quella rivoluzione informatica che avrebbe restituito al mondo la fisionomia di un “villaggio globale”, mappandolo nella ragnatela della rete; le alterazioni avvenute nelle relazioni umane e sociali, con notevoli ripercussioni nella linea verticale delle generazioni.

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L’opera di Hobsbawm non lo specificava, ma, una volta che era stato consegnato alla Storia il “secolo breve”, si era inaugurata la stagione della posterità: un segmento di anni chiamato in tanti modi – post-Storia, post-Novecento, post-moderno – che non apparteneva né al Duemila, né al precedente periodo. Più che una nuova epoca, è assomigliato a un interregno senza nome e senza connotati, in cui il futuro era stato anche prefigurato con il dovuto entusiasmo, ma era un entusiasmo che nascondeva incertezza, perché accanto alla condizione postuma conviveva la percezione di orfanità, come se l’aver decretato la morte prematura di un tempo, per giunta breve, avesse automaticamente ingenerato la sensazione di una mancanza. Anche se ce ne siamo accorti dopo, da quel momento ci siamo sentiti privi della possibilità di accompagnare il vecchio secolo al suo epilogo, accettarne la sua fine, esaminarne la sua eredità. È stato traumatico anche perché la liturgia del congedo si è svolta con la medesima rapidità, con gli stessi tratti di una vertigine con cui erano transitati i settant’anni individuati da Hobsbawm.

Il problema che si pone ora nasce da una precisa domanda: siamo davvero sicuri che il Novecento sia terminato con la caduta del Muro di Berlino? A un trentennio da quella tappa epocale e simbolica comincia a insinuarsi il dubbio che non sia così. Gran parte di quanto è accaduto nel tempo successivo ha continuato a manifestare i segni di una discendenza dal vecchio secolo frettolosamente amputato – tanto la deflagrazione delle speculazioni finanziarie quanto il problema dei migranti – e perfino il più eclatante dei fenomeni accaduti a cesura del passaggio di millennio, l’attentato alla Torri Gemelle del 2001, ha evidenziato la sua matrice nell’odio mediorientale nei confronti dell’Occidente. Ma il Novecento non è terminato al capolinea di Hobsbawm e la difficoltà nel dare un nome compiuto al perimetro della posterità credo sia derivata dall’aver constatato, indirettamente e intuitivamente, che forse è stato un errore considerarci fuori dai lasciti che le sue strutture ideologiche, le sue contraddizioni e perfino i suoi vizi politici hanno consegnato a noi.

Licenziate le idee che avevano nutrito nel bene e nel male il “secolo breve”, siamo rimasti in tanti a rimpiangerne l’assenza, abbiamo confuso le epifanie dell’ipertecnologia come segnali di un cambiamento che invece era la declinazione sotto altri codici degli stessi alfabeti. Sicché tutto quel che è accaduto ha tratto origine dai semi gettati in precedenza e il secolo, da breve, come lo aveva battezzato Hobsbawm, si rivela ora nella sua interezza di cento anni, nel suo carattere irrisolto, apocalittico e utopico, «moderno e antimoderno», come lo ha mirabilmente definito Cesare De Michelis in un saggio uscito pochi mesi fa per Marsilio.

A questo punto si tratta di individuare una data a cui assegnare le medesime funzioni di confine e di cesura. L’inizio della pandemia ha i requisiti per esserlo. Essa, infatti, rappresenta il primo, vero fenomeno globale che, per modi e forme, rivendica un’origine tutt’altro che ascrivibile all’eredità del Novecento ed è, questa data, un confine a quo tanto più radicalizzato nel tessuto della quotidianità se si pensa alle trasformazioni di cui siamo stati attori e testimoni, a cominciare dalla nozione di connessione interpersonale e dalla smaterializzazione del lavoro, due tra i fattori cardine dell’identità novecentesca, che l’emergenza sanitaria ha modificato definitivamente, facendone materia adatta a tutt’altri paradigmi.

Ancora non si può dire se ciò sia un vantaggio o una perdita, così com’è arduo domandarsi se convivere per un anno e mezzo con la grande paura abbia reso indispensabile acquisire un nuovo habitus rispetto ai criteri della sostenibilità ambientale, al valore della solidarietà, agli equilibri tra ricchezza e responsabilità.

Ciò che può venirci in aiuto – e darci conferma di essere definitivamente approdati a un’alba di un’altra Storia – è la convinzione di quanto sia costruttivo sentirci cittadini di un’Europa tesa a riguadagnare in termini di centralità e di coesione il terreno perduto con la fine della Grande Guerra, a ritagliarsi cioè una sagoma più adeguata alle sue potenzialità rispetto al ruolo ancillare nei confronti delle scelte politiche ed economiche statunitensi, assolto nel corso del Novecento. Se è vero che la pandemia ridisegnerà gli equilibri del vecchio e del nuovo mondo, sarà finalmente arrivato
il momento che l’Europa si candidi a modello di una civiltà in cui prevalga il valore della persona in quanto comunità e non più dell’individuo in quanto massa.

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