Perché le offese di Ilaria Cucchi a Salvini sono «giustificate»
Il Gip di Milano ha disposto l’archiviazione nei confronti della sorella di Stefano Cucchi: la sua era critica politica non insulti alla persona
di Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani
I punti chiave
- In un’intervista laria Cucchi aveva definito Salvini «uno sciacallo»
- Matteo Salvini aveva sporto querela
- Il Gip di Milano ha prosciolto l’indagata ritenendo che le figure pubbliche possano essere criticate
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È di qualche giorno fa la notizia secondo cui il Gip di Milano ha disposto l’archiviazione nei confronti di Ilaria Cucchi che, in una intervista radiofonica del 19 novembre 2019, aveva definito Matteo Salvini «uno sciacallo» che «fa politica di basso livello» sulla morte di suo fratello, «completamente fuori dal mondo», ipotizzando che fosse «sotto gli effetti del mojito».
Salvini aveva sporto querela e, di fronte alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, aveva proposto opposizione, che tuttavia non ha persuaso il giudice, il quale ha disposto il proscioglimento dell’indagata con una pronuncia assai articolata.
Anzitutto, il Gip ricostruisce il contesto in cui si colloca l’intervista. Il 14 novembre 2019, la corte d’assise di Roma condanna per omicidio preterintenzionale alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine per la morte di Stefano Cucchi, al termine di una «travagliata e oltremodo dolorosa vicenda giudiziaria». A seguito della sentenza, viene chiesto a Salvini se si senta in dovere di scusarsi con la famiglia per le frasi da lui pronunciate nel corso degli anni. Il commento del segretario leghista è laconico: «Questo caso testimonia che la droga fa male sempre e comunque». In altri termini, Salvini sposta l’asse del discorso dal fatto che una persona fosse morta per le violenze subite da parte di chi lo aveva in custodia, alla circostanza che la vittima facesse uso di droga. Di qui, la reazione di Ilaria Cucchi a una affermazione avvertita come non rispettosa dell’accertamento processuale e quindi della memoria del fratello.
Il giudice afferma con chiarezza, e d’altra parte non potrebbe fare altrimenti, che le parole utilizzate sono senz’altro offensive. Ma, con altrettanta chiarezza, il magistrato sottolinea che il diritto di critica si applica appunto a espressioni che ledono la reputazione e, con un’ordinanza molto approfondita e assai ben scritta, spiega perché questa offesa sia da ritenere giustificata. Più precisamente, il Gip ricorda come le parole utilizzate da Ilaria Cucchi fossero indirizzate a stigmatizzare le precedenti dichiarazioni dell’uomo politico, che mostravano una radicale mancanza di riguardo nei confronti del proprio congiunto. La critica, dunque, non era volta a colpire la persona, bensì un comportamento, posto in essere nell’ambito della sua azione politica.
Il tenore, poi, indubbiamente acceso, delle frasi rivolte alla persona offesa era anch’esso giustificato dall’argomento, assai scottante di per sé, nonché dalla risonanza avuta su tutti i media nazionali (con prese di posizione di analoga asprezza). E ancor più giustificato per l’indagata, che oltre ad avere subito la dolorosissima perdita del fratello, si era intestata l’arduo, penoso e (almeno all’inizio) frustrante compito di svelare quanto davvero accaduto dentro il carcere.
Il provvedimento sembra quindi del tutto condivisibile e, anzi, si iscrive in un indirizzo giurisprudenziale, che trae origine all’estero, in particolare nelle decisioni dei giudici anglosassoni e della magistratura sovranazionale, e che si sta solidificando anche entro i nostri confini. Quello secondo cui le “figure pubbliche”, come certamente è un politico di primo piano, possono essere criticate, per comportamenti tenuti nella “veste” per cui sono note, fino al limite dell’insulto. In questo senso si ricordano la sentenza della Corte europea che ha ritenuto legittimo apostrofare “idiota” il governatore della Carinzia, o la Corte di Cassazione che ha assolto chi aveva gridato “buffone” a Berlusconi all’uscita da una delle udienze in cui era processato anni fa. Ciò perché da un lato chi ha una tale posizione di rilievo, soprattutto in politica, deve poter essere sottoposto alla critica più penetrante, e persino feroce. Dall’altro, perché proprio la popolarità di cui la figura pubblica gode gli consente di avere il palcoscenico che preferisce per rispondere a qualunque “attacco”.Qualcosa che almeno un politico della “prima Repubblica” aveva capito, se è vero il ritratto che ne fa Montanelli: «Senza di lui non riusciremmo a spiegare nessuno. Il suo armadio è il più accogliente sacrario di tutti gli scheletri in cerca di autore circolati in Italia nell’ultimo ventennio. E dobbiamo convenire che Andreotti si è sempre gentilmente e con molta grazia prestato ad accoglierli. Mai un lamento, mai una querela, mai nemmeno una piccola smorfia di rammarico o di dispetto».
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