ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùBussola &Timone

Perché sui piccoli vantaggi dell’inflazione è meglio non contare

Un’impresa vede ridursi il valore reale dei propri debiti, ma solo se i prezzi dei prodotti che vende crescono in linea con l’inflazione, altrimenti il suo stato debitorio non migliora. Questi effetti contraddittori riguardano anche i grandi debitori sovrani

di Giovanni Tria

(stadtratte - stock.adobe.com)

7' di lettura

È noto che l’inflazione colpisce famiglie e imprese nella loro spesa corrente, ma rappresenta un vantaggio per i debitori che beneficiano della riduzione del valore reale dei propri debiti.
Le cose non sono tuttavia così semplici, perché spesso una famiglia, o un’impresa, ha debiti ma anche crediti. Una famiglia sopporta una riduzione del potere d’acquisto dei propri redditi nominali, ma se questi non aumentano non coglie neppure il vantaggio di una riduzione del valore reale dei propri debiti, che in proporzione ai propri redditi rimangono uguali.

Un’impresa vede ridursi il valore reale dei propri debiti, ma solo se i prezzi dei prodotti che vende crescono in linea con l’inflazione, altrimenti il suo stato debitorio non migliora. Questi effetti contraddittori riguardano anche i grandi debitori sovrani. Oggi lo Stato italiano si trova in affanno a reperire le risorse aggiuntive che servono per attenuare l’impatto dell’inflazione su famiglie e imprese, ma al tempo stesso riceve un aiuto, in quanto grande debitore, proprio dall’inflazione i cui costi esso è chiamato a mitigare.

Loading...

L’inflazione dà un aiuto alla riduzione del debito in rapporto al Pil aumentando la crescita del Pil nominale, almeno fino a quando i tassi di interesse nominali, che determinano la crescita del debito, rimangono inferiori al tasso di inflazione. Ciò che conta sono anche i tempi di trasmissione dell’aumento dei tassi di interesse, aumento dovuto all’inflazione e alle politiche monetarie restrittive, all’intero stock del debito.

Nel breve periodo, quindi, l’inflazione ha un potenziale impatto positivo sulla stabilizzazione del debito pubblico: se tra il 2022 e il 2023 l’inflazione cumulata raggiungerà il 15%, di tal misura si ridurrà il valore reale dello stock del debito italiano e della stessa misura si ridurrà il valore reale dei crediti di coloro che l’hanno sottoscritto e si ridurrà il rapporto debito/Pil.

In questo meccanismo svolgono un ruolo importante le aspettative di inflazione, perché determinano i tassi nominali di interesse ai quali vengono effettuate le nuove emissioni di debito. Fin quando queste aspettative rimangono inferiori all’inflazione registrata, il risultato è una riduzione, e non un aumento, dei tassi di interesse reali.

L’insistere, quindi, da parte delle banche centrali sulla temporaneità dell’inflazione, e di conseguenza sulla necessità di mantenere basse le aspettative di inflazione, serve non solo a impedire l’avvio di una rincorsa prezzi/salari, ma anche ad ancorare i tassi di interesse nominali a un livello inferiore all’inflazione, con un beneficio per la stabilizzazione dei debiti pubblici.

Tuttavia, allo stesso modo delle famiglie e delle imprese, lo Stato non gestisce solo stock, cioè debiti e crediti, ma ha entrate e uscite. Deve cioè gestire i flussi da cui in definitiva poi dipendono gli stock. Dal lato delle entrate, lo Stato è aiutato dall’inflazione a coprire le spese aggiuntive necessarie a mitigare il costo dell’inflazione su famiglie e imprese perché aumentano le entrate fiscali commisurate a un imponibile gonfiato dall’inflazione.

Ciò è quanto accaduto in quest’ultimo anno, che ha visto un aumento delle entrate che non è andato a beneficiare una riduzione più veloce del deficit, ma a finanziare, senza ulteriori scostamenti di bilancio, gli aiuti erogati all’economia per l’aumento del costo dell’energia. Ma lo Stato è anche un pagatore, in altri termini deve guardare al lato delle uscite perché acquista beni e servizi sul mercato e paga salari. Se, quindi, nel breve periodo, le maggiori entrate sono destinate, a causa della crisi energetica, al sostegno del sistema produttivo e all’aiuto alle famiglie a basso reddito, in seguito lo Stato sopporterà l’impatto dell’inflazione sulle varie voci di spesa.

L’adeguamento o meno dei salari pubblici farà parte delle scelte riguardanti la redistribuzione del costo dell’inflazione importata che il Paese deve sopportare perché non eliminabile. In ogni caso aumenterà il costo dei beni e servizi acquistati. Se gli stanziamenti previsti dalle leggi di spesa per coprire questi costi rimarranno invariati vuol dire che essi si ridurranno in termini reali. Una strategia potrebbe essere quella di congelarli e, in tal modo, si attuerebbe una strategia di “tagli lineari”. La via più facile politicamente. Altrimenti, se non si vuole aumentare il deficit, si dovrà adottare una strategia di “ricomposizione della spesa”, cioè fare delle scelte politiche.

Questo quadro dipende dalla durata dell’inflazione e dal suo livello, perché se si arriverà all’inversione tra livello di inflazione e aspettative di inflazione, con le seconde in aumento, si potrà avere una parziale inversione degli effetti descritti, cioè tassi di interesse reali positivi e in aumento. Allora inizierebbero i guai.

La morale di questa analisi può essere riassunta in tre punti.

1 I benefici dell’inflazione sul deficit di bilancio sono di breve durata.

2 Poiché i benefici immediati si bruceranno per l’emergenza, si dovrà decidere come redistribuire il successivo impatto dell’inflazione sul bilancio pubblico tra le voci di spesa, quindi scelte difficili e politiche.

3 La tassa da inflazione non consente spazi per un rilassamento nel controllo dei saldi di bilancio perché l’effetto di stabilizzazione del debito attribuibile all’inflazione può invertirsi nel momento in cui i tassi di interesse nominale divenissero superiori all’inflazione. Negli anni 80 dello scorso secolo il debito italiano raddoppiò in concomitanza dell’uscita dall’inflazione.

Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”.

Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse.

Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari al momento del consumo.

Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso.

C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019.

La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito.

Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare.

Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi.

Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.

Riproduzione riservata ©

loading...

Loading...

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti