Perchè le quotazioni di Borsa delle banche italiane non riflettono i loro progressi
Alcuni studi recenti hanno alimentato il dibattito sui valori assoluti e relativi, cioè comparati con la situazione di altri Paesi, delle banche italiane commerciali, espressi dal mercato azionario.
di Roberto Ruozi e Giovanni Martelli
4' di lettura
Alcuni studi recenti hanno alimentato il dibattito sui valori assoluti e relativi, cioè comparati con la situazione di altri Paesi, delle banche italiane commerciali, espressi dal mercato azionario. Il rapporto fra il prezzo e i mezzi propri di tali nostre banche quotate in Borsa è infatti pari a circa 0,50, che si confronta con una media europea di circa lo 0,80.
La principale motivazione che si adduce per spiegare tale divario è quella della maggiore rischiosità delle banche italiane e, in particolare, della presenza nel loro attivo di bilancio di un ingente ammontare di non performing loan, o Npl e di unlikely to pay, o Utp, peraltro ridottosi di circa i 2/3 negli ultimi sette anni.
Così che, anche ipotizzando per assurdo la loro totale trasformazione in perdite, ciò non dovrebbe tuttavia giustificare i bassissimi prezzi delle azioni delle nostre banche quotate.
Dato che nel portafoglio delle nostre banche tradizionali commerciali, vi è un’ampia presenza di titoli di Stato, si potrebbe pensare che la loro maggiore rischiosità percepita dal mercato sia una diretta conseguenza di un più alto rischio sovrano rispetto a quello delle banche tedesche, francesi e spagnole.
La differenza rispetto a queste ultime è, tuttavia, tale che appare assai difficile ricondurla al fatto appena citato. Bisogna peraltro considerare che nel bilancio delle banche degli altri Paesi europei figurano attività che le nostre banche posseggono in misura assai minore e che di fatto non sono per nulla meno rischiose dei nostri titoli di Stato.
Sta di fatto che l’andamento e il livello dei corsi azionari delle banche italiane le rende scarsamente attraenti nel mercato. Ciò è vero a evidenza per quelle quotate, ma lo è ancora di più per le piccole e medie banche non quotate in Borsa.
In questo contesto, infatti, l’evoluzione della normativa rende l’adeguatezza patrimoniale un traguardo che si sposta continuamente in avanti e che diventa sempre più difficile da raggiungere affidandosi al solo autofinanziamento. Il basso rapporto fra prezzo di Borsa e mezzi propri delle nostre banche viene anche spiegato con il modesto livello della redditività, i costi elevati e la crescente disintermediazione dovuti anche all’affermazione di concorrenti, come le Fintech, che operano al di fuori del perimetro della vigilanza bancaria.
A tali argomentazioni si può obiettare che nel corso degli ultimi anni le banche italiane hanno conseguito significativi progressi su diversi dei fronti prima citati. Infatti:
O nel 2021 il return on equity, o Roe si è attestato tra il 7 e l’8%, valore non disprezzabile, pur se inferiore alla media europea e, ancor di più, a quella delle banche americane;
O il cost/income è passato nel corso degli ultimi cinque anni dal 73,6 al 67 per cento;
O la diversificazione delle fonti di ricavo ha fatto si che, rispetto al tradizionale core business, espresso dal margine di interesse, l’ammontare delle commissioni passasse, nell’ultimo quinquennio, dal 72 all’87,7
per cento.
Anche le nostre banche commerciali tradizionali non hanno del resto mancato di reagire alla sfida delle fintech, soprattutto dotandosi di canali e strumenti innovativi di accesso al mercato e di gestione delle relazioni di clientela.
Ritornando tuttavia al gap nel rapporto prezzo/mezzi propri nelle banche italiane, andrebbe comunque considerato che, essendo le banche soggetti vigilati da Banca centrale europea, Banca d’Italia e Consob, il mercato dovrebbe tener conto, a parità di altre condizioni, della loro minore rischiosità dovuta alla stabilità del sistema di cui fanno parte.
Altro rilevante fattore che il mercato sembra ignorare è la particolarità del ciclo produttivo tipico dell’impresa bancaria. Per la natura stessa del “prodotto bancario” il turnover dei clienti è, infatti, largamente inferiore a quello di qualsiasi altra impresa eccetto, forse, le compagnie di assicurazione. A titolo di esempio dimostrativo di quanto affermato si ricorda che nel caso limite in cui una banca nel corso di un determinato anno non acquisisse nessun nuovo cliente, il flusso dei ricavi rivenienti dai rapporti in essere sarebbe intaccato in misura relativamente ridotta.
In altre parole negli altri settori di attività economica il flusso degli ordini che generano il fatturato e quindi, a parità di altre condizioni, i profitti, è determinante per la produzione di questi ultimi. Nel caso delle banche ciò è invece relativamente secondario rispetto alla funzione della consistenza e della stabilità dello stock di posizioni in essere.
Questa caratteristica connota perciò le banche come soggetti per loro natura fortemente resilienti dal punto di vista commerciale e, indirettamente e conseguentemente, anche da quelli economico e patrimoniale.
Esistono, quindi, almeno due fattori, come la relativa protezione del rischio assicurata dall’attività della vigilanza e la specificità del ciclo produttivo che, sempre a parità di altre condizioni, dovrebbero incidere positivamente sulla valutazione economica e patrimoniale delle banche, e in particolare quelle locali e di dimensioni modeste che, per altro, si ritiene da molti, sopportino una più elevata incidenza dei costi da regolamentazione.
I fatti esaminati e le loro conseguenze sulla valorizzazione di Borsa delle nostre banche non sono purtroppo sostenuti da evidenze empiriche, che sarebbe in conclusione opportuno ricercare e quantificare per poter dare al mercato e ai regolatori elementi di maggior consapevolezza e eventualmente migliorare l’attrattività assoluta e relativa delle azioni delle nostre banche per gli investitori.
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