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Perché Regioni e Comuni possono emanare divieti più restrittivi dello Stato

C’è un decreto legge che doveva riordinare le competenze su limitazioni e sanzioni. Ma ci sono contrasti politici e tutto è destinato a restare incerto. Salvo colpi di scena

di Maurizio Caprino

Passeggiate per bambini pomo della discordia ai tempi del Covid19

6' di lettura

Ma le ordinanze locali valgono ancora o adesso prevalgono le limitazioni decise dal Governo per l’emergenza coronavirus? La sera del 3 aprile, si è parlato di mantenere per altri dieci giorni i provvedimenti più restrittivi già presi dalle Regioni. Che fine hanno fatto l’uniformità e il coordinamento promessi il 25 marzo, quando è stato emanato il Dl 19/2020, che ha disciplinato le decisioni e cambiato le sanzioni? Spieghiamo.

L’antefatto
Sino a febbraio inoltrato, a vedere i comportamenti di popolazione, aziende e forze politiche, pareva che il dilagare del Covid-19 potesse riguardare solo la Cina: in Italia si temeva fortemente che arrivasse, ma nessuno ha chiesto le misure drastiche adottate in quel Paese per fermarne subito la diffusione. Ma poi il dilagare dei contagi ha mandato in crisi la rete ospedaliera, che negli ultimi vent’anni ha subìto chiusure e tagli di personale e ora non ha sufficienti posti (soprattutto in terapia intensiva). E la materia rientra fra le competenze delle Regioni, quindi i governatori hanno capito che avrebbero rischiato batoste elettorali future e forse anche avvisi di garanzia da qualche Procura.

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Così tutte le autorità locali si sono fatte prudenti. Più prudenti del Governo. E hanno sfruttato il potere di emettere ordinanze urgenti per tutelare igiene e sanità pubblica in caso di necessità (legge 833/1978, articolo 32, comma 3). Ecco perché in molti casi abbiamo divieti locali più restrittivi di quelli nazionali ed è difficile stare dietro alla loro evoluzione.

Un padre con figlia nell’area giochi. (Ansa/Matteo Corner)

Rischio paralisi decisionale
In una situazione del genere, diventa difficile anche riuscire a prendere decisioni: il Governo ha imposto la maggior parte dei divieti con una serie di Dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri), un tipo di provvedimento previsto già dal primo decreto legge sull’emergenza coronavirus (il Dl 6/2020, del 23 febbraio) che richiede di sentire anche le Regioni. Se i governatori non sono d’accordo, si rischia di far trascorrere in discussioni tempo prezioso, nonostante si stia parlando di provvedimenti urgenti.

Questo spiega, per esempio, il motivo per cui il divieto di uscire dal territorio del Comune in cui ci si trova è stato imposto per la prima volta il 22 marzo da un’ordinanza del ministro della Salute. Un atto che non richiede di sentire le Regioni ed è vincolante fino a che non viene superato da un Dpcm o da una norma di rango alcora superiore (legge o decreto legge).

Solo ore dopo è stato possibile emanare un Dpcm (entrato in vigore solo il giorno successivo, data l’ora tarda) che, oltre a confermare questo divieto di spostamento, ha disciplinato una materia spinosa: l’elenco delle attività che possono restare aperte. Il 21 marzo il Piemonte e la Lombardia avevano emanato proprie ordinanze che chiudevano, per esempio, anche gli studi professionali, non toccati dalle decisioni del Governo.

Situazioni analoghe per le ordinanze locali che vietavano espressamente di uscire di casa anche per fare jogging nelle vicinanze, come invece consentivano le norme nazionali e le interpretazioni che ne dava il ministero dell’Interno.

Lunghissima coda con attese di 1 ora al supermercato (foto ipp-giorgio rossi)

Il riordino
A quel punto, non si capiva se le restrittive ordinanze regionali precedenti valessero ancora. Il 23 e il 24 marzo sono trascorsi nell’incertezza, con esperti qualificati che si confrontavano arrivando ciascuno a una propria conclusione. Mentre il Governo preannunciava affannosamente che sarebbe arrivato un chiarimento. Questo chiarimento ha poi preso la forma degli articoli 2 e 3 del Dl 19/2020, approvato in modo travagliato. Tanto da essere stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale la sera del 25 marzo, oltre 24 ore dopo la seduta del Consiglio dei ministri in cui era stato approvato.

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In sostanza, l’articolo 3, comma 1 ha stabilito che prevalgono i Dpcm. Ma le Regioni possono prendere loro decisioni più restrittive, se ci sono «situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso». Mantenendosi però «esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale».

In ogni caso, queste ordinanze regionali valgono solo fino al momento in cui viene adottato un Dpcm che riguardi quelle situazioni locali. E che, pare di capire, possa anche smentire la Regione, riportando in vigore le misure nazionali precedenti al Dpcm stesso o comunque stabilendone di nuove meno restrittive di quelle introdotte dall’ordinanza regionale.

Il Dl 19/2020 è ancora più netto nei confronti dei Comuni. Così stabilisce l’articolo 3, comma 2: «I sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1».

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Come eludere il riordino
Ma alle preoccupazioni dei governatori sulla tenuta degli ospedali si sommano le tattiche dei partiti, quindi i contrasti politici continuano. E anche il Dl 19/2020 rischia di servire a poco. Già il primo aprile, per esempio, il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, comunicava ufficialmente ai Comuni lombardi che avrebbe confermato le sue precedenti ordinanze anche dopo la loro scadenza. L’articolo 2, comma 3 del Dl stabilisce che esse possono valere solo fino al 5 aprile (10 giorni dopo l’entrata in vigore del Dl, avvenuta il 26 marzo), ma Fontana farà una nuova ordinanza uguale a quella di prima. Ovviamente motivandola con gravi situazioni in qualche modo sopravvenute, così da rispettare almeno formalmente i limiti di competenza introdotti dal Dl 19/2020.

Lo stesso faranno gli altri governatori, come è emerso la sera del 3 aprile dal vertice in videoconferenza al quale li ha convocati il premier Giuseppe Conte. Ci si è dati un’altra decina di giorni per creare una sorta di cabina di regia che appiani i contrasti. Se non ci si riuscisse, lo scontro potrebbe teoricamente arrivare al punto in cui Conte firmi Dpcm che smentiscono le ordinanze regionali. Ma probabilmente tutti perderebbero credibilità, cosa che nessuno può davvero permettersi in un periodo di emergenza sanitaria nazionale che richiede di governare una popolazione da una parte provata da lutti e perdite economiche, dall’altra stufa della quarantena.

Quanto alle ordinanze comunali, il divieto di andare in contrasto con i provvedimenti statali è netto solo in teoria. Lo ha dimostrato l’ondivaga vicenda del sì alle passeggiate con i bambini: dopo l’apertura messa per iscritto in una circolare dal capo di gabinetto della ministra dell’Interno, la pioggia di critiche da parte di governatori e sindaci ha costretto il Governo a una sostanziale retromarcia. D’altra parte, se è vero che i sindaci non possono contraddire le norme nazionali, nel caso delle passeggiate con i bambini non ce n’era una che le autorizzasse esplicitamente, ma solo una circolare interpretativa. Che, come tale, non è vincolante per tutti.

Senza chiarezza
Le regole sono poco chiare anche quando non ci sono contrasti tra Stato, Regioni e Comuni. Alcune di esse sono frutto di interpretazioni «ballerine» che possono spiazzare. È il caso di quella data dallo stesso capo di gabinetto della ministra in una circolare di commento al Dpcm del 22 marzo, stavolta sulla possibilità di uscire dal territorio comunale per fare la spesa «nel caso in cui il punto vendita più vicino e/o accessibile alla propria abitazione sia ubicato nel territorio di un altro Comune». Una apertura che non si ritrova nelle risposte ai quesiti più frequenti (Faq) riportate nei siti web governativi.

Altro caso si era aperto quando la Procura di Genova ha interpretato le limitazioni sulla spesa affermando che si possa farla solo nel quartiere. Ma anche qui si tratta solo di una circolare, indirizzata solo alle forze dell’ordine di quella zona e che può essere smentita da altre interpretazioni.

Non di rado queste situazioni di scarsa chiarezza sono causate anche dall’esigenza di mantenere un fisiologico gradi di discrezionalità nelle decisioni caso per caso o di non svelare strategie e modalità operative che potrebbero essere eluse dai più furbi.

L’unica regola è il buonsenso
Cose che capitano, in un Paese abituato a furbizie e cavilli e dove per questo si tende a dettare regole sempre più minuziose, al punto da diventare difficilmente applicabili. Ma con la pandemia, più ancora che in altre occasioni, dovrebbe essere chiaro a tutti che il problema non è aggirare le regole, ma evitare di contagiarsi e di contagiare. E la posta in gioco è ben più alta delle sanzioni in denaro o del finire eventualmente in carcere.

Anche chi non sta adottando un comportamento pericoloso perché viene trovato in un luogo deserto deve pensare che in teoria chiunque potrebbe uscire di casa come lui, ma se tutti facessero così quel luogo diventerebbe affollato e quindi pericoloso.

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