Perché sbagliare non sempre è un errore
Davanti alle sfide che ci attendono occorre riflettere approfonditamente sulla natura degli errori che potremo commettere, sia per una progettazione fallace sia per un'esecuzione difettosa. Ma lo si dovrà fare con la prospettiva corretta, gli strumenti giusti e le migliori conoscenze a nostra disposizione
di Vittorio Pelligra
7' di lettura
Ero alla ricerca di un tema che potesse rappresentare in modo sintetico ma evocativo questo anno passato, così anomalo e tragico ma, allo stesso tempo, anche foriero di novità e timide speranze; di un tema che, contemporaneamente, potesse offrire la possibilità di riflettere, assieme ai lettori di Mind the Economy, sulle sfide che il futuro prossimo ci presenta, sui rischi e sulle opportunità che ci si pongono innanzi e che dovremmo al più presto iniziare a sfruttare al meglio; un tema di respiro ampio, con ricadute stimolanti e concrete, ma anche con un radicamento profondo nell'impresa di scoperta del funzionamento del nostro cervello, del suo percepire e abitare il mondo. Non mi c'è voluto molto per trovare questo tema, mi ci vorrà parecchio per svilupparlo a dovere. Sto parlando dell'errore umano, dell'esplorazione dei modi, delle ragioni, delle conseguenze, individuali e collettive, di ciò che facciamo ricadere sotto il nome generico e impreciso di “errore”.
L'errore
Riflettere sull'errore significa chiedersi come e perché gli esseri umani si dimenticano le cose, le fraintendono, perdono attenzione e concentrazione e sono soggetti a debolezza della volontà e del pensiero, ma anche chiedersi perché in alcune circostanze è più facile che in altre che si verifichino questi errori, e come, quindi, sia possibile costruire difese e anticorpi sempre più efficaci. Esiste una dimensione personale e una sistemica dell'errore, una dimensione privata ed una pubblica. Errori individuali ci possono mettere personalmente in pericolo o arrecare dei danni piccoli o grandi, altre volte un piccolo errore o una sequenza di piccoli errori possono mettere in moto una catena di eventi che può sfociare in esiti catastrofici, come l'incidente di Chernobyl o l'esplosione del Challenger, e questo può derivare sia da una manchevolezza della persona che da una deficienza del sistema, della procedura e del piano d'azione.
Le contromisure
Per cercare contromisure dobbiamo partire dal presupposto che, mentre non è possibile cambiare radicalmente la natura umana per renderla meno vulnerabile agli sbagli, è invece possibile cambiare le circostanze e l'ambiente nel quale gli uomini e le donne operano, e farlo in modo da ridurre la probabilità che essi prendano decisioni errate. Questo è un punto fondamentale e critico. La distinzione tra la gestione dell'errore basata sulla persona e quella basata sul sistema. È, infatti, emotivamente molto più soddisfacente poter considerare responsabile di un errore una persona piuttosto che un'istituzione e ciò vuol dire anche che la ricerca di tale soddisfazione può indurci a sovrastimare la responsabilità individuale e sottostimare, al contempo, quella del sistema di regole e procedure sistemiche e impersonali.
La conseguenza è che le vere cause dell'errore scompaiono nella nebbia e la natura degli eventi che hanno portato all'errore, o nel peggiore dei casi, alla catastrofe, perde i suoi contorni di chiarezza. I resoconti pubblici e le ricostruzioni di casi come quello della collisione della Moby Prince nel porto di Livorno, dell'incendio alla Thyssenkrupp di Torino, dell'incidente ferroviario tra Andria e Corato e dello stesso crollo del ponte Morandi di Genova, solo per fare alcuni esempi, sono stati, con buona probabilità, viziati dalla ricerca di una attribuzione di responsabilità individuali emotivamente più gratificante. Gli errori umani vanno studiati con il rigore e lo scrupolo dello scienziato. E' un filone di ricerca che mette insieme ambiti anche distanti tra loro e molte figure diverse. Storicamente, però, l'errore, attira in origine l'attenzione degli psicologi. Il primo a isolare il campo di indagine e a rendere quest'ultima sistematica fu, probabilmente, James Sully, professore allo University College di Londra che, nel 1881, pubblicò un volume intitolato “Illusions”, nel quale decise di stilare un campionario non solo di quelle illusioni tipicamente studiate dalla fisiologia della visione o dell'udito, ma anche quelle più sottili derivanti dal funzionamento della memoria, delle emozioni, del pensiero e dell'intuizione. Sully fu il primo a cimentarsi nella costruzione di una tassonomia rigorosa dell'errore e a provare a individuarne elementi comuni e invarianti alle varie tipologie di errore. Il suo libro ebbe quattro edizioni in pochi anni, ma venne presto dimenticato. Molto più successo, anche tra i lettori non accademici, venne decretato, qualche anno dopo, al saggio di Sigmund Freud intitolato “Psicopatologia della vita quotidiana”. Partendo da un piccolo evento personale – l'incapacità a ricordare un nome – Freud si rende conto dell'enorme potenziale che lo studio degli errori, dei lapsus, delle dimenticanze, delle sviste, può avere nella comprensione del funzionamento della nostra mente.
La scienza dell’errore
L'errore come epifenomeno di processi che si svolgono nel profondo del nostro inconscio, invisibili all'occhio della coscienza. “Sono arrivato alla conclusione che il fenomeno – tanto comune e abbastanza irrilevante nella pratica – consistente nel momentaneo blocco di una facoltà psichica (la memoria), può ricevere una spiegazione la cui portata va molto al di là dell'importanza generalmente accordata a tale fenomeno”, scrive Freud nella prima pagina del suo libro, cogliendo come, anche attraverso lo studio di un semplice cedimento della memoria, si possano disvelare meccanismi fondamentali per il funzionamento della psiche umana. L'errore, anche il più piccolo e apparentemente insignificante, inizia ad esser visto, allora, non tanto e solo come uno “slip”, uno scivolone, una mancanza, ma, piuttosto, come l'effetto di un processo più profondo e ancora tutto da comprendere. Saranno poi William James e gli psicologi della Gestalt, a cavallo tra '800 e ‘900, a dare ulteriore impulso alla scienza dell'errore
La storia va avanti grazie all'opera di molti protagonisti geniali e creativi, ma la vera svolta si ha intorno agli anni '70 del secolo scorso, quando si assiste a un cambio di prospettiva radicale: si perde interesse per le teorie normative e si iniziano a sviluppare, invece, teorie descrittive dell'errore. Si passa, cioè, da un approccio nel quale l'errore viene visto come una deviazione da un corso razionale d'azione o come frutto di un evento psichico inconscio, a un nuovo approccio nel quale l'errore altro non è che una conseguenza del normale funzionamento dei nostri processi cognitivi che, in date circostanze, tendono a produrre sistematicamente risultati inaspettati. I principali protagonisti di questa svolta sono Herbert Simon, Peter Wason e la coppia Daniel Kahneman e Amos Tversky. I loro contributi sono complessi e articolati, ma, in estrema sintesi, pongono l'accento sul fatto che il nostro processo decisionale non segue né le regole della logica né quelle della statistica, come, fino ad allora, sostenevano le teorie più sofisticate.
La nostra razionalità è “limitata” - ci spiega Simon - e i nostri processi decisionali, per economizzare sulle ridotte risorse cognitive che abbiamo a disposizione, non mirano al risultato ottimale, ma a quello “soddisfacente”. Una razionalità limitata e anche imperfetta, rincara la dose Wason, il cui lavoro si concentra sui modi in cui raccogliamo e processiamo le informazioni che sostengono le nostre convinzioni. Il principale risultato di Wason è l'aver mostrato come la comprensione umana del mondo procede prima prendendo una posizione e formandosi un'opinione e, solo successivamente, cercando di raccogliere dall'ambiente circostante tutte quelle informazioni capaci di confermare e corroborare le posizioni già assunte.
L’origine dell’errore
Un passo ulteriore e, per molti versi ancora più rivoluzionario, è quello compiuto da Kahneman e Tversky, i quali provano come, davanti a un mondo incerto, tutti noi ragioniamo utilizzando un numero limitato di “euristiche” di scorciatoie mentali che si sono evolute per ottimizzare il rapporto tra efficacia delle scelte e risorse necessarie per elaborarle. Quelli che noi definiamo errori sarebbero in realtà, quindi, solo conseguenze di processi cognitivi corretti applicati inconsciamente a contesti sbagliati. Questa è la prima importante conclusione alla quale la ricerca moderna ci ha condotti: l'errore non è un corpo estraneo alla nostra mente, una materia aliena che si insinua negli ingranaggi dei processi decisionali, ma è, piuttosto, il risultato del loro stesso funzionamento, l'effetto secondario di una mente che, per natura, non è affatto logica, ma, piuttosto, psico-logica. Ne possiamo dedurre che l'errore, dunque, sarà sempre con noi. Si può limitare e prevenire, ma non eliminare, perché come ci ricorda Ernst Mach: “La conoscenza e l'errore fluiscono dalla stessa sorgente mentale. Solo il successo sarà in grado di distinguere la prima dal secondo”. Per questo, aggiunge James Reason: “Le performance di successo e gli errori sistematici non sono altro che due facce della stessa medaglia”.
Gli errori trovano origine in quella stessa qualità che ha reso così strabiliante il successo degli esseri umani nel comprendere e dominare l'ambiente nel quale viviamo: la nostra capacità di semplificare la complessità del reale. Se è vero, però, che gli errori non si potranno mai eliminare del tutto, è altrettanto vero che si possono progettare organizzazioni resilienti, capaci, cioè, di adattarsi ai mutati contesti e minimizzare la probabilità dell'occorrenza di conseguenze disastrose. Se da una parte è necessario, quindi, cercare di limitare il verificarsi di errori pericolosi, dall'altra, è forse ancora più importante progettare sistemi capaci di tollerare flussi anche elevati di tali errori, capaci di disinnescare processi moltiplicativi e di neutralizzare eventuali conseguenze deflagranti. Mentre ci siamo tradizionalmente orientati verso il tentativo di rendere le persone meno fallibili – cosa palesemente complicata – sarebbe ora di sviluppare maggiormente quella parte della gestione dell'errore finalizzata a ristrutturare l'ambiente, le organizzazioni, le norme e le regole, i gruppi, in modo da renderle più “accoglienti” per gli errori che inevitabilmente si produrranno. Continueremo a sbagliare perché l'errore è connaturato al pensiero umano, ma cerchiamo di porci nelle condizioni di disinnescare le conseguenze più disastrose di tali errori attraverso una pianificazione accorta e lungimirante.
Credo che davanti alle sfide che i prossimi mesi e i prossimi anni ci porranno davanti, la gestione della salute fragile di milioni di persone, la salvaguardia di un sistema produttivo che si è dimostrato vulnerabile da molti punti di vista, l'evoluzione dei luoghi, dei modi e dei tempi del lavoro, della partecipazione politica, della fruizione di innumerevoli beni e servizi, dalla scuola alla pubblica amministrazione, dall'arte al divertimento, riflettere approfonditamente sulla natura degli errori che potremmo commettere, sia per una progettazione fallace che per un'esecuzione difettosa, non sarà certamente un esercizio futile, a patto che lo si faccia con la prospettiva corretta, gli strumenti giusti e le migliori conoscenze a nostra disposizione. Ecco il mio augurio sentito per l'anno che viene. Dopo quello che abbiamo passato quest'anno credo proprio che ce lo meritiamo.
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