Perché serve un’Europa più amica delle imprese
di Antonio Tajani
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Ho apprezzato l’intervento dei presidenti di Confindustria e di BusinessEurope, Vincenzo Boccia e Pierre Gattaz e condivido molte delle loro proposte.
Crisi economica, Brexit, terrorismo, l’instabilità ai nostri confini e i flussi migratori hanno evidenziato le debolezze della costruzione europea. Egoismi nazionali, veti incrociati, eccessi burocratici, allontanano i cittadini dal progetto europeo, che appare distante e inefficace. Le sirene populiste hanno facile gioco nel promettere soluzioni tanto allettanti quanto illusorie.
Ma distruggere quanto abbiamo costruito finora, con 60 anni di pace, libertà, diritti fondamentali e prosperità, è un grave errore.
Guardiamo al Regno Unito.
Molti cittadini britannici si stanno rendendo conto di essere stati vittime di propaganda e fake news. La realtà è che subiranno danni ingenti dall’uscita dall’Unione europea, specie se questa dovesse avvenire senza un accordo. È un chiaro monito per populisti e sovranisti di tutta Europa, spesso molto più bravi a demolire che a costruire.
È impensabile competere con giganti quali Usa, Cina, India o Russia andando in ordine sparso. Solo uniti possiamo proteggere cittadini e imprese nel mondo globale, garantendo loro sicurezza, benessere, accordi commerciali favorevoli, tutela della proprietà intellettuale, dei diritti sociali, della salute o dell’ambiente.
Ma decidere di restare nell’Unione non vuol dire negare la realtà. Quest’Unione così com’è non va. Deve diventare più democratica e più efficace nel tutelare i nostri interessi.
Dall’inizio del mio mandato, lavoro per colmare la distanza tra istituzioni Ue e cittadini. Il Parlamento europeo, unica istituzione eletta direttamente, deve avere un ruolo centrale nel promuovere questo cambiamento. Per questo, ho invitato tutti i capi di Stato e di Governo in plenaria per discutere del futuro dell’Europa.
Senza cambiamenti, rischiamo di non dare risposte convincenti ai cittadini, a cominciare dal lavoro, che è la priorità delle priorità.
Per dare prospettive ai giovani serve un’Europa più amica delle imprese, che sostenga chi produce con una robusta politica industriale. Dall’industria, difatti, dipende l’80% dell’occupazione nel privato, dell’innovazione e dell’export. Per questo, mi sono sempre battuto affinché l’economia reale, l’industria, le Pmi, l’agricoltura, il commercio, l’artigianato fossero in primo piano in tutte le politiche europee.
La crescita e la produzione industriale calano in tutta Europa. L’Italia è in recessione. Servono più investimenti. Il Parlamento europeo ha votato una proposta di un bilancio per il 2021-2027, all’altezza di queste sfide. Abbiamo chiesto risorse pari all’1,3% del Pil Ue, da conseguire senza aumentare le tasse, attraverso nuove risorse proprie, facendo finalmente pagare giganti del web e paradisi fiscali.
Questo consentirà di non ridurre i fondi per la coesione e l’agricoltura e di aumentare quelli per le Pmi, formazione, digitale, transizione energetica, economia circolare, infrastrutture, spazio e industria della difesa.
La nostra competitività dipende anche dalla capacità di innovare. Il Parlamento vuole un’Europa leader nelle tecnologie, dove i nostri ricercatori non siano costretti a emigrare. Chiede di aumentare da 80 a 120 miliardi i fondi per la ricerca e l’innovazione e, triplicare le risorse per l’Erasmus.
La crisi ha evidenziato l’incompletezza dell’edificio dell’euro e alcuni errori, come gli eccessi di austerità che hanno minato la coesione sociale in molti Paesi.
La nostra moneta non è fine a se stessa. Deve essere uno strumento per realizzare un’economia sociale di mercato, con l’obiettivo di portare prosperità e lavoro a tutti. Non possiamo rimanere in mezzo al guado, dove rischiamo di essere travolti da una nuova crisi. Vanno completate l’Unione bancaria e quella fiscale ed economica. Anche la Banca centrale europea, che pure sotto Draghi ha operato molto bene, deve avere poteri analoghi a quelli della Federal reserve americana.
Il mercato interno è il nostro primo motore di occupazione e crescita. Solo per l’Italia vale 250 miliardi di export l’anno. Ma per sfruttare il suo grande potenziale dobbiamo finire d’integrare i mercati dei servizi, del digitale, dell’energia e dei capitali.
Le nostre imprese sono leader nella qualità e nella tecnologia e hanno tutto l’interesse a mercati aperti. A patto che questo avvenga a parità di condizioni. Non è accettabile giocare 11 contro 11 a Bruxelles e 13 contro 9 a Pechino.
Per questo il Parlamento ha preteso robusti strumenti contro il dumping e chiede il controllo degli investimenti stranieri per evitare indebite sottrazioni di proprietà, intellettuale.
La strada da seguire è quella degli accordi con Canada e Giappone, che favoriscono export e lavoro europeo, garantendo i nostri standard di sicurezza e la tutela dei prodotti tipici.
Per competere ad armi pari con i giganti globali dobbiamo anche rivedere le nostre regole di concorrenza, che impediscono la formazione di campioni europei. Queste regole sono nate in un mondo che non esiste più, dove i concorrenti degli europei erano solo altri europei.
Le prossime elezioni europee devono essere un’occasione per promuovere questi cambiamenti. A cominciare dal rafforzamento del ruolo del Parlamento Ue, che deve poter proporre le leggi come tutte le altre assemblee del mondo.
I cittadini vogliono che a decidere siano i rappresentati che hanno votato, e non dei funzionari. E chiedono un’Unione che non abbia in primo piano l’ossessione di regolamentare tutto o che si perda in cavilli. Vogliono, piuttosto, un’Europa che si concentri su poche grandi questioni: creare lavoro con più investimenti, contribuire alla stabilità e alla pace, con una vera politica estera, di difesa e di sicurezza, gestire i flussi migratori, tutelare l’ambiente, difendere gli interessi europei ovunque nel mondo globale.
Presidente del Parlamento europeo
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