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Anche nel mare possono esserci pandemie. Nel 2019 in Giappone una misteriosa malattia ha colpito le ostriche Pinctada fucata martensii, che producono le perle Akoya, le più popolari nel mondo della gioielleria e secondo prodotto dell’industria ittica del Paese più esportato dopo le capesante. Con la pandemia è peraltro diminuito anche il numero dei coltivatori di perle, un mestiere antico quanto faticoso, che impone lunghi periodi passati in mare. La produzione è dunque decisamente calata, anche in termini di qualità, e stavolta non a causa di microrganismi: per produrre perle perfette, infatti, il nacre dell’ostrica (meglio noto come madreperla) ha bisogno di acque pulite, con pH e temperature adeguate, caratteristiche che sono sempre più rare in epoca di riscaldamento globale e acidificazione degli Oceani. «Le ostriche perlifere sono sentinelle delle acque - spiega Gaetano Cavalieri, che da 20 anni guida il Cibjo, la confederazione mondiale dell’industria dei gioielli, impegnata a promuoverne la sostenibilità -. Per coltivarle necessitano di un ambiente marino stabile, ed è per questo, per esempio, che i coltivatori usano delle reti molto fitte per fermare l’inquinamento da plastiche e microplastiche, che potrebbe compromettere la produzione di perle. Grazie a accorgimenti come questo, nelle coltivazioni sono ricomparse ben 150 specie di pesci e altre creature marine. La sostenibilità delle perle, inoltre, passa anche dal loro essere le uniche gemme rinnovabili, dal momento che un’ostrica può produrre perle per circa 3 anni».
Sostenibilità è anche proteggere dall’estinzione le tecniche della coltivazione di perle, «una coltura che è anche cultura - prosegue Cavalieri - e che si trasmette fra generazioni. È un lavoro molto duro, si vive per lungo tempo in mari anche pericolosi. Ma c’è un legame profondo con le ostriche: quando se ne prendono cura gli operatori parlano con loro, come fossero animali domestici».
Una cura necessaria, anche perché il tasso di mortalità delle ostriche può sfiorare il 75%: «Per questo anche le perle non commerciabili vengono riutilizzate in altri ambiti, per esempio nella moda», nota Cavalieri, che sottolinea anche come la produzione di perle sia una delle più tracciate dell’industria dei preziosi, anche perché le realtà in grado di produrre perle di ottima qualità sono in numero limitato.
Le perle sono peraltro sempre più richieste dal mercato (anche perché indossate oggi anche dagli uomini, come è stato fino ai primi del Novecento, quando la perla è diventata gemma “femminile”): Mikimoto, il gruppo giapponese che ha lanciato la produzione di perle un secolo fa, ha deciso di recente di aumentare il prezzo delle sue Akoya anche del 20%. Il Qatar, che fino alla scoperta del petrolio nel 1939 era un Paese che esportava perle come gli altri del Golfo Persico, sta tornando alle origini con l’Abu Dhabi Pearls Project, che punta a produrre almeno 20mila perle di alta qualità all’anno. Mentre anche India e Bangladesh si stanno affacciando su questo rilucente mercato.
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