Perù, guida alla scoperta di una delle migliori cucine al mondo
4.500 tipi di patata, 500 di peperoncino, 700 di pesce. Il Paese è da otto anni consecutivi la migliore destinazione gourmet, grazie alla sua biodiversità e alle ricette indigene, rivisitate in fine dining
di Fernanda Roggero
5' di lettura
Charles De Gaulle si chiedeva come si potesse governare un Paese con 246 diverse varietà di formaggio. I governi peruviani degli ultimi dodici anni, invece, delle oltre 4.500 varietà di patate coltivate tra le Ande e il mare - insieme con i 500 tipi di peperoncino, i tuberi e le erbe amazzoniche - hanno solo pensato che potessero essere una leva formidabile per fare della loro terra una destinazione gastronomica. Missione compiuta.
l Perù, fino a poco più di un decennio fa solo sinonimo di montagne scoscese e magnifiche rovine Inca, si è scoperto attrazione gourmet. Attira appassionati da ogni dove e colonizza gli altri continenti a suon di ceviche. Che sia Londra, New York, Los Angeles o Milano, i ristoranti peruviani proliferano e la ceviche-mania (il pesce crudo marinato in lime e peperoncino) spadroneggia ovunque. Per l'ottavo anno consecutivo, il Perù ha conquistato ai World Travel Awards il riconoscimento come Migliore destinazione culinaria al mondo. Ora, qualcuno potrà pure storcere il naso, sottolineando la grande tradizione gastronomica francese e la straordinaria varietà delle ricette italiane, ma il successo planetario di questa cucina fresca, inclusiva, multicolore e gagliarda è innegabile. Ben 11 ristoranti peruviani figurano nella classifica 50 Best Latin America e due di loro, Central e Maido, sono rispettivamente al sesto e decimo posto nei 50 Best Mondo.
Ma da dove nasce questo incredibile successo? La risposta è semplice: un efficace, convinto lavoro di gruppo, in cui ognuno ha fatto il proprio, mettendo da parte protagonismi, ambizioni ed invidie. «È una bella storia di condivisione», racconta Paola Miglio Rossi, linguista prestata al giornalismo e curatrice del volume Perù: El gusto es nuestro. «Dodici anni fa uscivamo dalla stagione avvelenata del terrorismo: la gente ha iniziato a riscoprire vasti territori del proprio Paese che erano rimasti off limits a lungo. Ha ritrovato gusti, ingredienti, tradizioni sepolte per anni ed è tornata ad essere orgogliosa della propria identità, anche quella culinaria».
I cuochi che erano andati in Europa hanno iniziato a tornare, primo tra tutti Gastón Acurio, il padre riconosciuto della rinascita gastronomica peruviana. Pedro Schiaffino ha fatto da apripista, introducendo un menu degustazione a base di prodotti locali. Poi è venuta Mistura, la grande fiera del cibo, e a ruota l'alta ristorazione. Oggi il 59 per cento dei turisti visita il Perù per la sua cucina e, lo scorso anno, il governo ha stimato il business legato alla gastronomia intorno a 1,5 miliardi di dollari, il doppio del 2013. Abbiamo, così, chiesto a Paola di condurci in un viaggio virtuale tra prodotti, luoghi, cuochi e futuro. Iniziando da Lima, la capitale. «Fino a un decennio fa, chi veniva a Lima si fermava al massimo una notte. Il tempo per organizzare il trasferimento a Machu Picchu o Cuzco. Oggi si viene con un'agenda già piena di indirizzi e spesso dopo aver prenotato da settimane le cene nei locali più conosciuti».
Immancabile la doppia tappa da Maido e Central. Quest'ultimo è il ristorante di Virgilio Martínez, testimone dell'agricoltura eroica andina. Mancato avvocato, Martínez è un idolo dei critici gastronomici di mezzo mondo quanto un punto di riferimento per gli antropologi. La sua cucina filologica e al tempo stesso fantasmagorica riesce a dissolvere nei piatti le atmosfere incantate delle cime più inaccessibili e la profondità degli abissi marini. Nel suo menu articolato per altitudini, a seconda dei luoghi da cui provengono le materie prime, riconduce a unità un caleidoscopio di sapori e saperi. In sedici piatti un viaggio-scoperta dell'intero Paese. Maido è, invece, l'epitome dell'influenza nikkei. «Non è solo la cucina creola a mescolare», ricorda la giornalista che è anche una dei tre rappresentanti dei 50 Best in America Latina. «Tutti i nostri piatti sono frutto di un immenso melting pot: abbiamo influenze africane, arabe, spagnole, italiane, giapponesi, cinesi e, persino, tedesche». Il ristorante di Mitsuharu Tsumura propone una cucina che è riduttivo definire fusion: come dice Tsumura, è «flusso costante, fa cantare i villaggi sul fornello». Impensabile lasciare Lima senza fare una puntata a Astrid y Gastón, di Gastón Acurio, là dove tutto ha avuto inizio, Costanera 700 di Yaquir Sato, Mó.Bistró di Matías Cillóniz (specializzato in piatti vegetariani), El Mercado di Rafael Osterling e Kjolle di Pía León, la moglie chef di Martínez.
Seconda tappa obbligata: Suasi, l'unica isola privata del lago Titicaca. Situata a quattro ore di navigazione dalla città di Puno, è una destinazione naturalistica unica. Sull'isola c'è un solo albergo, Isla Suasi, una grande casa di campagna circondata da terrazze e giardini. Stufe a legna e soffitti a capanna dove si aprono ampi lucernari su cui di notte si affaccia una gragnuola di stelle. «Ideale per dimenticarsi del cellulare», assicura Paola. Qui l'esperienza gastronomica è familiare: quinoa, patate autoctone, oca (un tubero, non l'animale), formaggi e trote biologiche, innaffiati dal Pisco. Poi ci si sposta sulle orme del dio Pachacámac, un'area archeologica forse meno nota degli altri siti legati alla cultura Inca, ma dal grande valore. Era il luogo dedicato agli oracoli e al dio creatore: maestose piramidi tronche, templi, ma anche piazze e palazzi. Un fiorente centro di aggregazione che attirava migliaia di pellegrini già in epoca pre-incaica. A un solo chilometro dall'oceano e, quindi, occasione per tuffarsi nel molteplice universo del ceviche, facendo ben attenzione a non scambiare il rocoto per un pomodoro. Pur avendone ugual colore e consistenza, il rocoto è il più micidiale dei peperoncini peruviani e persino i locali evitano i suoi semi per non rischiare di infiammarsi senza rimedio.
Infine Cuzco e, soprattutto, Mil. Qui è vera magia, secondo Paola Miglio. Mil è il ristorante costruito da Virgilio Martínez a 3.500 metri, sulle vette andine che sovrastano lo scenografico parco archeologico di Moray, non lontano da Cuzco. «In questo posto, cucina ancestrale, ricerca, tecnica, accoglienza e condivisione si mescolano in un progetto complesso che va molto al di là di ciò che finisce nel piatto», spiega Paola. Martínez riesce a vincere una sfida azzardata: catturare l'essenza di un luogo. «Chiunque vada lassù se ne rende conto: gli ospiti sono invitati ad arrivare già al mattino, visitano le coltivazioni, incontrano le comunità, toccano con mano il rapporto diretto e continuo con le popolazioni. Questo è il nuovo lusso per me, l'unicità dell'esperienza».
Il miracolo del successo gastronomico peruviano sta proprio nel legame solido con i produttori. «La nostra più grande ricchezza è la biodiversità», dice la sociologa, chef e ricercatrice Isabel Álvarez Novoa. «Soprattutto in un mondo standardizzato, preda di effimere mode culinarie. Dobbiamo preservarla ad ogni costo». Secondo Pedro Schiaffino, il futuro della cucina peruviana verrà ancora dalle foreste amazzoniche: uno scrigno con 700 specie di pesci e 162 varietà di frutta. E anche dalle ricette indigene, rivisitate con le tecniche del fine dining. Che siano le Juanes (i classici stufati di pesce o di pollo avvolti in foglie di bijao), il tacacho di banana verde o l'inchicapi, la zuppa tradizionale consumata a colazione, a base di arachidi, aglio, manioca, mais, cumino e foglie di Sacha culantro.
loading...