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Petrolio e Covid: così gli aerei a terra minacciano le raffinerie

Lo stop prolungato dei voli rischia di essere una condanna a morte per molti impianti. Soprattutto in Europa, dove il settore in crisi da anni potrebbe non avere più tempo

di Sissi Bellomo

Opec: 60anni di storia tra nuove alleanze e strategie

3' di lettura

Il coronavirus è tornato a spaventare i mercati, compreso quello del petrolio: nuovi lockdown darebbero il colpo di grazia all’economia e ai consumi energetici, così le quotazioni del barile – sulla scia delle borse – sono affondate del 5% nella seduta di lunedì 21, portandosi intorno a 41 dollari per il Brent e sotto 40 dollari nel caso del Wti. A complicare la situazione c’è anche l’imminente (per quanto parziale) ripresa delle forniture di greggio dalla Libia, dopo che nel weekend la Noc ha revocato lo stato di forza maggiore in alcuni porti e infrastrutture del Paese. Ma a pesare sul mercato non sono soltanto gli sviluppi delle ultime ore.

La ripresa sognata dall’Opec si è inceppata

La ripresa in cui l’Opec sperava sembra essersi inceppata e – a prescindere dall’allarme per i nuovi contagi da Covid19 – già da qualche settimana si stavano manifestando segnali di debolezza sul fronte della domanda. Sia l’Opec, sia l’Agenzia internazionale per l’energia e il Governo Usa questo mese hanno rivisto al ribasso le stime per il 2020 nell’ultimo bollettino mensile. Se i consumi di benzina a livello globale si sono ripresi piuttosto bene nel corso dell’estate, lo stesso non si può dire per quelli di gasolio da autotrazione, un termometro piuttosto accurato della salute dell’economia. Soprattutto, è diventato sempre più evidente come la crisi del trasporto aereo rischi di provocare un impatto tanto profondo e prolungato da rappresentare una minaccia mortale per molte raffinerie, soprattutto in Europa, dove il settore – in crisi da anni – potrebbe non avere tempo e risorse sufficienti per la riconversione necessaria alla transizione energetica.

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Un segmento che vale l’8% del mercato dei carburanti

I carburanti per aerei solo in apparenza sono un mercato di nicchia: nel 2019 rappresentavano circa l’8% dei consumi petroliferi globali (intorno a 8 milioni di barili al giorno, secondo dati Bp), ma erano uno dei segmenti più redditizi e a maggiore crescita, con un incremento dei volumi del 2,7% l’anno nell’ultimo decennio, ben superiore a quello di altri prodotti raffinati. Oggi la domanda è più che dimezzata, il prezzo di vendita è crollato e non si vedono segnali di ripresa imminente. Ma quel che è peggio è l’effetto sui margini di raffinazione, andati a picco per tutti i distillati, che di solito trainano i profitti: in Nord Europa dai 16 $/barile di inizio anno si è scesi intorno a 3 dollari.

Gran parte degli aerei, soprattutto quelli destinati a rotte di lungo raggio, continuano a rimanere a terra e la Iata teme che non si tornerà alla normalità prima del 2024. Nel frattempo le scorte di distillati (in gran parte jet fuel) continuano ad accumularsi: negli Usa – dove i passeggeri in volo sono diminuiti del 70% – sono ai massimi stagionali almeno dal 1991 (179,3 mb, +31,2% rispetto a 12 mesi fa). C’è così tanto jet fuel in giro per il mondo che letteralmente non si sa più dove metterlo. Da qualche settimana è tornato in auge il fenomeno degli stoccaggi galleggianti: carburante custodito su petroliere in attesa di tempi migliori (secondo Vortexa sono ancorate soprattutto in Europa). L’abbondanza e il prezzo basso sta anche spingendo a mescolare il cherosene destinato agli aerei ai carburanti per le navi. In Russia secondo Reuters viene diluito pure nel gasolio da autotrazione, creando mix pericolosi, perché il prodotto è più infiammabile di altri. Il fatto è che le raffinerie non possono produrre un solo carburante per volta e ci sono limiti alla possibilità di rimodulare i volumi di ciascuno. In molti casi l’unica via di uscita per evitare perdite è rallentare l’attività, se non fermarla del tutto.

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