Petrolio, ora taglia anche l’Iraq. Non si tornerà ai livelli del 2019 nemmeno l’anno prossimo
Per l’Aie la domanda è meno peggio del previsto, ma non si tornerà ai livelli del 2019 nemmeno l’anno prossimo. Ma i tagli di produzione sono così drastici che le scorte sono avviate a smaltirsi ugualmente
di Sissi Bellomo
3' di lettura
Anche il petrolio si è unito al rally dei mercati finanziari, consentendo al Brent di riportarsi sopra 40 dollari al barile. Ma a trainare le quotazioni non è solo l’effetto Fed. Il coronavirus sembra aver compromesso la domanda un po’ meno di quanto si pensasse, dicono le nuove stime dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie). Ma soprattutto l’offerta sta crollando, con la linea dura imposta dall’Opec Plus che funziona al di là di ogni aspettativa.
Persino l’Iraq, il produttore meno rispettoso delle quote, ora si sta affrettando a chiudere i rubinetti, segno che Baghdad è riuscita ad ottenere una condivisione dei sacrifici da parte delle compagnie straniere impegnate nei suoi giacimenti. Tra queste Eni, che avrebbe iniziato a ridurre l’output a Zubair.
A Bp sarebbe stato ordinato un taglio del 10% a Rumaila, il maggiore giacimento del Paese, e richieste simili sarebbero arrivate ad ExxonMobil per West Qurna 1 e a Lukoil per West Qurna 2.
Il neo ministro iracheno del Petrolio, Ihsan Ismaael, ha assicurato una riduzione dell’export di greggio del 15% a giugno, a 2,8 milioni di barili al giorno: «È nel nostro interesse, altrimenti i prezzi del petrolio scenderanno», ha dichiarato alla tv Al-Sharqiya. E le sue non sono parole al vento.
I sistemi di monitoraggio delle petroliere confermano che nei primi 15 giorni del mese le spedizioni sono già scese a 2,9 mbg dal Centro e dal Sud dell’Iraq, mentre dai giacimenti curdi del Nord sono partiti 350mila bg, meno del tetto di 370mila bg concordato con Baghdad. La produzione «seguirà un percorso simile», afferma l’Aie.
L’offerta di greggio a livello globale era già crollata di ben 11,8 mbg a maggio, calcola l’agenzia dell’Ocse,con un contributo record da parte degli Usa, dove si fermano non solo pozzi di shale oil, ma anche produzioni convenzionali: a maggio Washington ha perso 1,3 mbg (e dal picco dello scorso novembre a oggi ben 2,4 mbg).
La riduzione più forte tuttavia è legata ai tagli dell’Opec Plus, che nel primo mese di entrata in vigore avevano già raggiunto 9,4 mbg, l’89.% del totale promesso: una disciplina senza precedenti, che è diventata ancora più ferrea dopo il richiamo all’ordine con cui il 6 giugno si è concluso il vertice della coalizione.
Come sempre è l’Arabia Saudita ad accollarsi il sacrificio maggiore: la sua produzione è scesa a 8,5 mbg a maggio (-3,5 mbg) e a 7,5 mbg a giugno, il minimo da vent’anni. Ma la vera sorpresa è arriva da altri fronti.
La Russia ha già effettuato quasi per intero il taglio promesso, riducendo le estrazioni di ben 1,95 mbg a maggio. E si stanno mettendo in riga anche tutti gli altri Paesi tradizionalmente indisciplinati: una disobbedienza che in passato è dipesa in gran parte dagli obblighi contrattuali con compagnie straniere.
Stavolta invece l’Azerbaijan ha rispettato da subito il tetto produttivo, il Kazakhstan si è allineato da metà maggio, mentre per la Nigeria – come per l’Iraq –questo mese si osserva «un netto declino delle esportazioni».
Se non ci saranno cedimenti, né una seconda ondata di coronavirus, le scorte secondo l’Aie potranno smaltirsi anche in presenza di una domanda non proprio brillante.
L’Agenzia ha alzato di 0,5 mbg la stima per il 2020, ma vede tuttora una riduzione di 8,1 mbg su base annua, concentrata soprattutto nel primo semestre. E a causa della «situaizone disperata dell’aviazione» anche l’anno prossimo la domanda di petrolio sarà inferiore del 2,5% rispetto ai livelli del 2019.
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