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Petrolio, sui prezzi l’effetto ribassista del boom di esportazioni Usa

Sono aumentate di un quinto, a livelli record, e compensano i tagli Opec+. Per la prima volta nella storia il greggio è anche la maggiore voce dell’export Usa, con entrate per quasi 90 miliardi di dollari in nove mesi, che superano 220 miliardi se si aggiungono carburanti e gas

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3' di lettura

Gli Stati Uniti producono petrolio in quantità da primato. Ma soprattutto sono le esportazioni a correre, a ritmi senza precedenti: nei primi nove mesi dell’anno in media hanno preso il largo ben 4 milioni di barili di greggio al giorno, il 20% in più rispetto al 2022. Un boom che ha generato entrate record, pari a 87,7 miliardi di dollari tra gennaio e settembre secondo i dati US Census.

Per la prima volta nella storia il petrolio è diventato la maggiore voce di esportazione del Paese, con il 5,6% del totale. Ma si arriva addirittura al 14,4% se si sommano i carburanti – per cui l’export ha fruttato 82,9 miliardi in nove mesi – e il gas (50,5 miliardi).

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L’effetto ribassista

Sono numeri record, che contribuiscono in gran parte a spiegare le recenti pressioni sui prezzi del petrolio, scesi ai minimi da luglio e in ribasso di oltre il 20% rispetto ai picchi raggiunti a fine settembre, in quello che si definisce un “bear market”. Lo si deve anche al boom di forniture dagli Usa, che ha in parte compensato i tagli Opec+, se il mercato si è raffreddato nonostante l’alto rischio geopolitico legato al conflitto in Israele, che potrebbe destabilizzare l’intero Medio Oriente.

Il tonfo più forte per le quotazioni petrolifere, intorno al 5%, si è verificato giovedì 16, quando le vendite – innescate da dati macro deludenti e un inatteso accumulo di scorte negli Usa – si sono probabilmente intensificate per l’intervento di fondi algoritmici, che hanno reagito a segnali tecnici.

Il Brent è crollato sotto 80 dollari al barile (in chiusura valeva 77,40 dollari), soglia che venerdì 17 ha cercato di riguadagnare, rimbalzando di circa il 3%, ma che appare tuttora fragile. Il Wti ha invece concluso la settimana intorno a 75 dollari, dopo essere sceso giovedì a 72,40 dollari, livello che non toccava da luglio. Proprio in quel mese l’Arabia Saudita aveva cominciato ad effettuare tagli di produzione aggiuntivi rispetto a quelli concordati con l’Opec+: una stretta supplementare cui si è accodata la Russia, dapprima definita temporanea, ma in seguito estesa fino alla fine dell’anno.

La reazione di Riad

Gli occhi ora sono puntati sul prossimo vertice della coalizione, in agenda domenica 26 novembre. Un’ulteriore proroga, se non addirittura l’annuncio di tagli ancora più aggressivi, potrebbe essere nelle carte, vista la performance deludente sul fronte dei prezzi: Brent e Wti sono anche passati in contango, condizione in cui i barili a pronti costano meno di quelli per consegna futura, che di solito segnala buona disponibilità di petrolio. E per entrambi i riferimenti la performance per il 2023 è diventata negativa, sia pure di pochi punti percentuali.

Del resto lo scenario dei fondamentali è cambiato. «È diventato chiaro che per il resto dell’anno il bilancio (tra domanda e offerta, Ndr) non è tirato come ci si aspettava inizialmente – osserva Ing in una nota – Allo stato attuale ci si aspetta di tornare a un surplus d’offerta nel primo trimestre 2024».

Svolta inattesa

La stessa “diagnosi” è condivisa da molti analisti, compresi quelli dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che in un rapporto pubblicato martedì 14 – pur alzando le stime sulla domanda petrolifera – hanno previsto un’offerta più che sufficiente a soddisfarla a inizio 2024, anche nel caso in cui Riad confermasse i tagli extra.

Il motivo principale è proprio la produzione Usa, che corre a livelli superiori alle attese, in crescita di 1,4 mbg quest’anno per l’Aie: un incremento che neutralizza gli sforzi sauditi, visto che la stretta effettuata con la Russia doveva ritirare dal mercato 1,3 mbg.

Nel mese di ottobre Washington ha estratto 13,2 mbg di greggio, un record storico. E l’export si sta mantenendo su livelli elevatissimi: per dicembre Energy Aspects si aspetta 4,1 mbg, un’ulteriore accelerazione rispetto ai 4 mbg di questo mese. Bloomberg a inizio novembre fa contava ben 48 petroliere in arrivo nei prossimi tre mesi negli Usa per caricare petrolio, un affollamento che non si vedeva da almeno sei anni.

Ad accentuare l’influenza dell’industria petrolifera statunitense sul mercato del Brent ci sono anche fattori tecnici: a giugno S&P Global Platts ha inserito il greggio US Midland nel paniere del Brent Dated, che un tempo includeva soltanto barili estratti nel Mare del Nord. Ora è quasi sempre il greggio Usa, il più competitivo, a determinare il valore di questo riferimento, di importanza cruciale perché vi sono “agganciati” i prezzi di oltre due terzi degli scambi fisici di barili nel mondo.

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