Petrolio: Usa, Cina e India cedono riserve strategiche e tolgono potere all’Opec+
I tre Paesi, primi importatori mondiali di greggio, stanno vendendo scorte di Stato per volumi paragonabili alla produzione extra che l’Opec+ ha promesso entro fine anno
di Sissi Bellomo
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Il petrolio è tornato a correre, spingendosi ai massimi da due mesi. Ma per contrastare i rincari ora sono scesi in campo i maggiori Paesi consumatori: Cina, Stati Uniti e India – i primi tre importatori mondiali di greggio, nell’ordine – sono tutti impegnati a rilasciare scorte strategiche sul mercato, per un volume totale che potrebbe superare 40 milioni di barili di qui a fine anno secondo i calcoli del Sole 24 Ore, quantità paragonabili alla produzione extra promessa dall’Opec+.
Improbabile che si tratti di un’azione coordinata. Ma la coincidenza appare comunque significativa e forse non del tutto casuale: segno di un cambio di atteggiamento nei confronti dell’Opec+, cui non viene più concesso il privilegio esclusivo di manovrare l’offerta per influenzare i prezzi.
L’annuncio più clamoroso è quello arrivato giovedì 9 settembre da Pechino, che per la prima volta nella storia ha indicato apertamente di voler cedere barili dalle riserve di Stato, con il preciso intento di «attenuare la pressione dei rincari delle materie prime» e «stabilizzare meglio la domanda e l’offerta sul mercato domestico».
Termini che non lasciano spazio a dubbi e che di certo sono stati soppesati con cura, in un comunicato peraltro molto scarno, che non specifica tempi e modalità delle aste (i dettagli saranno pubblicati «a tempo debito», ha dichiarato alla Reuters un portavoce).
I volumi messi a disposizione – e in parte, si ritiene, già venduti tra luglio e agosto – sono comunque compresi tra 5 e 10 milioni di tonnellate secondo le stime degli analisti, ossia tra 36,65 e 73,3 milioni di barili.
Prima della Cina si era mossa anche l’India, sia pure in modo meno vistoso, decidendo quest’estate di cambiare le modalità di gestione delle scorte petrolifere di Stato: non più una riserva da custodire per eventuali emergenze, ma un “magazzino” da riempire e svuotare in modo opportunistico, a seconda delle condizioni del mercato.
Secondo indiscrezioni riportate dalla stampa locale, New Delhi in agosto ha già venduto oltre 500mila barili di greggio a due società statali, Hindustan Petroleum e Mangalore Refinery and Petrochemicals. Le stesse società entro dicembre riceveranno dalla Indian Strategic Petroleum Reserves Ltd (Isprl) altri 4,34 milioni di barili.
L’anno scorso, quando i prezzi erano crollati a causa del Covid, l’India ha comprato greggio per 19 dollari al barile, precisa la testata The Mint, e in questo modo ha riempito gli stoccaggi strategici con un risparmio di 685,11 milioni di dollari. I serbatoi hanno ancora una capienza molto ridotta, appena 5,3 milioni di barili, per cui le vendite in corso dovrebbero svuotarli. Ma l’intenzione del Governo è di utilizzare il ricavato per costituire scorte più ampie.
New Delhi a marzo, dopo aver esortato l’Opec+ ad aprire i rubinetti, era stata umiliata pubblicamente dal ministro saudita Abdulaziz bin Salman, che aveva risposto picche, invitando l’India a consumare piuttosto le sue scorte «accumulate nel 2020 a un prezzo molto basso».
La coalizione dei petrolieri ha voltato le spalle anche a un analogo appello rivoltole ad agosto dalla Casa Bianca, in allarme per i rincari record della benzina (tema politicamente molto sensibile oltre Oceano). Nello stesso periodo Washington ha pianificato la cessione di ben 20 milioni di barili di greggio tra ottobre e dicembre, il rilascio più consistente dal 2014.
Una decisione arrivata ben prima che l’uragano Ida mettesse in ginocchio l’industria petrolifera Usa e che ora si rivela utile: quasi un milione di barili al giorno di produzione sono ancora chiusi a due settimane dall’impatto e c’è una nuova tempesta tropicale, Nicholas, che rischia di colpire Texas e Louisiana. Otto compagnie, tra cui Exxon e Chevron, hanno ottenuto i primi “barili di Stato”, appena assegnati dal dipartimento dell’Energia. Ma si erano candidate all’acquisto 15 società.
Il maxi rilascio dalla Strategic Petroleum Reserve (Spr) risponde in realtà a una necessità politica che va al di là delle diatribe con l’Opec+: serve a finanziare il deficit di bilancio dello Stato, in base a una legge che risale al 2015. Ma Washington è sempre più orientata a ridurre l’entità della riserva strategica, con ulteriori vendite allo studio anche per finanziare la transizione energetica.
L’Spr, che custodiva 621,3 milioni di barili al 27 agosto, è ben più ampia di quanto prevedano le prescrizioni di sicurezza definite nell’ambito dell’Ocse, secondo cui bisogna tenere da parte volumi pari a 90 giorni di importazioni petrolifere nette. Usarla, anche al di fuori delle emergenze, non è più un tabù negli Usa. E può rispondere a molte esigenze. Compresa quella di raffreddare i prezzi alla pompa senza bisogno di affidarsi all’Opec+.
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