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Petrolio, gli Usa valutano aiuti di Stato per difendere lo shale oil

La guerra dei prezzi scatenata da Russia e Arabia Saudita rischia di travolgere le compagnie americane, che oggi non trovano finanziamenti. Washington è preoccupata anche dal rischio che la crisi contagi il sistema finanziario

di Sissi Bellomo

(age fotostock / AGF)

4' di lettura

Per gli Stati Uniti anche lo shale potrebbe essere too big to fail. Mentre il petrolio crolla per effetto della guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita, Washington sta valutando misure di salvataggio per il settore, un po' come aveva fatto nel 2008 con alcune banche: troppo grandi perché l’economia potesse sopportarne il fallimento.

Non c’è ancora nulla di ufficiale. Ma le indiscrezioni si stanno moltiplicando, insieme alle polemiche sull’opportunità di concedere aiuti di Stato ai petrolieri. Alla Casa Bianca ci sarebbero già stati numerosi colloqui sulle possibilità di intervento. E tra le ipotesi al vaglio, secondo fonti Bloomberg, sarebbe emersa anche quella di sostenere le quotazioni del barile acquistando greggio per la Strategic Petroleum Reserve (Spr): un espediente che assegnerebbe di fatto agli Usa il compito, oggi abbandonato dall'Opec Plus, di ridurre l’offerta petrolifera.

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Gli inteventi allo studio, scrive il Washington Post, che per primo ha rivelato i piani, comprendono la concessione di prestiti agevolati garantiti dal Governo federale per i frackers, che oggi (a differenza che durante la crisi del 2014-2016) faticano a trovare banche o altri investitori disposti a finanziarli. Potrebbero anche arrivare sconti sule royalties per lo sfruttamento di terreni federali, che sono ferme al 12,5% dal 1920.

La Spr – da cui l’amministrazione Usa fino a pochi giorni fa voleva vendere petrolio per fare cassa – sarebbe in grado di ritirare dal mercato circa 78 milioni di barili, esaurendo l’attuale a capienza degli stoccaggi (che è 713,5 mb).

La guerra dei prezzi ha intanto registrato una nuova escalation, benché solo a parole: l’Arabia Saudita ha detto di voler espandere anche la capacità produttiva, da 12 a 13 milioni di barili al giorno, gli Emirati Arabi Uniti hanno avvertito che «potrebbero» estrarre 1 mbg in più ad aprile (raggiungendo 4 mbg) e anticipare rispetto al 2030 i piani per salire a 5 mbg di capacità.

Gli emiratini in realtà sembrano impegnati soprattutto a ricucire le relazioni nell’Opec Plus: il ministro Suhail Al Mazrouei si è detto «dispiaciuto» per il fallimento del vertice sui tagli, sottolineando di «credere fermamente che un nuovo accordo sia essenziale».

Ma le quotazioni del petrolio sono comunque tornate a scendere, complice la dichiarazione di pandemia da parte dell’Oms, riportando il Brent sotto 36 $/barile e il Wti a 32 dollari, livelli che per gli operatori dello shale oil sono lontani anni luce dal breakeven.

Secondo l’ultimo sondaggio della Fed di Dallas, ci vuole un prezzo del Wti di 48-54 $/barile (a seconda delle zone geografiche) per spingere i frackers a trivellare nuovi pozzi, mentre al di sotto di 27-37 $ è incentivata la chiusura degli impianti già produttivi. Qualche società sta già gettando la spugna.

Travolte dai ribassi di questa settimana – che hanno quasi azzerato il valore di azioni e obbligazioni emesse dal settore – alcune compagnia, tra cui Diamondback e Parsley, hanno annunciato che rallenteranno le operazioni. Occidental, che si era dissanguata per scalare Anadarko, è sull’orlo del fallimento.

Il rischio sistemico, con una diffusione del “contagio” attraverso i corporate bond, è un eventualità che qualche analista comincia a temere.

Negli Usa quasi 110 miliardi di dollari di obbligazioni del settore Oil & Gas , il 12% del totale, lunedì 9 sono finiti in territorio “distressed”, con rendimenti che superavano di oltre 10 punti percentuali quelli dei Treasuries, scrive il Financial Times. Tra i bond spazzatura (emessi quasi sempre da società dello shale) quelli “distressed” sono due terzi.

Il rischio di default è altissimo e nel settore ci sono obbligazioni per 40 miliardi di dollari in scadenza quest’anno, secondo Moody’s.

«Ci saranno molti casi di bancarotta e migliaia di licenziamenti nei prossimi 12 mesi», ha avvertito Scott Sheffield, ceo di Pioneer Resources, tra i pionieri dello shale.

Altri veterani del settore si stanno muovendo, insieme alle lobby del petrolio, per spingere all’azione Donald Trump.

Di fronte ai fiumi di petrolio che si stanno riversando sul mercato gli Usa dovrebbero usare le leggi anti-dumping, suggerisce Harold Hamm, fondatore di Continental Resources e consulente della Casa Bianca. «Non voglio prescrivere al presidente che cosa fare o non fare. Ma l’amministrazione deve considerare ogni azione possibile per proteggere e preservare gli interessi americani, affinché non vengano messi in condizioni di svantaggio da altri governi, perché qui è di governi che si tratta, che sia la Russia o l’Arabia Saudita».

I petrolieri «non stanno cercando un bailout», assicura Mike Sommers, che guida l’American Oil Institute (Api). L’associazione di settore ha comunque emesso un comunicato stampa dal titolo eloquente: «La guerra di Putin contro l’industria petrolifera americana».

In passato, scrive l’Api, Mosca spesso ha «usato le politiche energetiche per realizzare obiettivi geopolitici». «Potrebbe essere stata una decisione di politica estera da parte della Russia quella di recuperare la sua influenza gepolitica per minare un asset strategico chiave degli Stati Uniti».

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