Piazza Affari, 2018 a due facce: cede il 16% ma cedole da record
di Maximilian Cellino
3' di lettura
Per Piazza Affari l’anno borsistico che si è concluso il 28 dicembre è stato quello della retromarcia. Il listino milanese ha terminato infatti con un bilancio negativo del 16,2%, in buona compagnia degli indici azionari dei maggiori Paesi sviluppati e leggermente meglio (in Europa) rispetto a quel Dax di Francoforte che ha lasciato sul terreno il 18,3% per la sua maggior sensibilità al rallentamento del commercio globale: uno dei temi chiave dei 12 mesi appena trascorsi e del futuro.
Tutte le grandezze espresse dalla Borsa italiana si sono dunque comportate di conseguenza: è scesa la capitalizzazione in termini complessivi (543 miliardi di euro rispetto ai 644 miliardi di fine 2017) e rispetto al Pil (33,5% da 37,8%) e si è in generale ridotta l’attività intorno al listino stesso. Se infatti è vero che gli scambi di azioni si sono mantenuti sostanzialmente stabili a una media giornaliera di 2,5 miliardi di euro (con il numero di contratti in aumento del 2,3% a quota 282.761), è invece drasticamente diminuita la quantità di denaro raccolta dalle società sul mercato: appena due miliardi dalle 31 Ipo, ai quali si aggiungono ulteriori 2,2 miliardi di controvalore provenienti dalle 22 operazioni di aumento di capitale, cifre che si confrontano però con i 21 miliardi rastrellati nel 2017.
Piazza Affari mostra in ogni caso vitalità, dato che il numero delle quotate è aumentato a 357, ma almeno per il 2018 ha fatto soprattutto affidamento alle società di taglia piccola. Tolte le 4 debuttanti sul mercato telematico principale Mta (Carel, Piovan, Garofalo Health Care e Techedge) e il veicolo Nb Aurora sul Miv, ben 26 sono stati i debutti su Aim Italia, che è così arrivato a contare 113 aziende. A queste operazioni si devono aggiungere poi 7 ulteriori ammissioni derivanti da operazioni di spin-off e business combination, i passaggi al mercato Mta dal Miv di Guala Closures e da Aim Italia di Giglio, Triboo, Piteco, Equita, Sit e Gpi, ma il cambio di passo (al contrario) rispetto all’anno scorso resta evidente e inevitabile.
Il risvolto per alcuni versi positivo della medaglia è invece rappresentato da un generale e sensibile aumento del dividend yield, il rendimento delle cedole distribuite parametrato al prezzo delle azioni. Non si tratta certo di un fenomeno sorprendente, dato che nell’anno in corso le società italiane hanno incrementato gli utili e distribuito ai soci generosi dividendi, mentre il valore dei titoli (cioè il denominatore del rapporto) si è ridotto in modo significativo. La nota interessante però è che il rendimento cedolare delle quotate italiane potrebbe rivelarsi nel 2019 alle porte fra i più elevati in Europa, anche se su numeri del genere è però necessario utilizzare tutta la cautela possibile. Se infatti è vero che sui dividendi pagati quest’anno la certezza è assoluta (secondo la banca dati Factset il rendimento medio ponderato dei 40 componenti del Ftse Mib sarebbe pari al 4,15% considerando i prezzi attuali, mentre era del 3,63% se si tiene conto dei valori di inizio 2018), la visibilità su quanto le società italiane distribuiranno nel corso di un 2019 che si preannuncia piuttosto incerto è scarsa.
Sempre i dati raccolti da Factset fra gli analisti indicano un dividend yield medio attorno al 5%, non lontano cioè da quel 5,46% raccolto da Bloomberg che proietterebbe in un orizzonte di 12 mesi le maggiori capitalizzazioni italiane più in avanti rispetto alle blue chip spagnole (4,90%), alle britanniche (5,17%), alle francesi (3,76%), alle tedesche (3,62%) e in generale alla media europea (4,10%). Ma al pari di queste cifre occorre considerare anche che le stime più conservative delle banche d’affari attribuirebbero invece al Ftse Mib un rendimento inferiore al 4%: sempre significativo, ma molto meno attraente per gli investitori.
Difficile al momento stabilire dove punterà di preciso la lancetta nei prossimi 12 mesi, anche perché con la temuta frenata dell’economia globale (e quindi, di riflesso, del ciclo di espansione economica europeo e italiano) la sostenibilità nel tempo degli utili creati e distribuiti negli ultimi tempi è quantomeno dubbia. A maggior ragione in presenza di un contesto, come quello nel nostro Paese, dove il grado di incertezza politica resta elevato e dove le banche (fra le maggiori dispensatrici di utili e dividendi negli ultimi tempi) rischiano di pagare dazio a recessione e crisi del debito.
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