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Nell’estate dei delisting, il caso Lavazza che a Piazza Affari non ci è mai andata

Macchina da soldi, piena di liquidità (280 milioni), la storica casa torinese del caffè, sempre più forte nel Regno Unito, è il contrario delle tante Pmi che entrano (e poi escono) dalla Borsa.

di Simone Filippetti

Lavazza e Saype, quando la sostenibilita' diventa arte

2' di lettura

Dalla terrazza delle Hydrangea Suites, le salette ospitalità accanto al Campo Centrale di Wimbledon, Piazza Affari è molto lontana per Marco Lavazza. E non solo per i 1.300 chilometri che separano i campi da tennis di Londra da Palazzo Mezzanotte a Milano. Nell’estate della fuga del Made in Italy da Borsa Italiana, dagli Agnelli a Della Valle, la famiglia Lavazza ha una sua coerenza: non ha mai quotato la storica azienda, che festeggia 125 anni, e tanto meno smania per farlo adesso. D’altronde, quando siedi su oltre 280 milioni di liquidità, a che serve andare in Borsa? «Abbiamo la fila delle banche d’affari - esordisce l’erede dei Lavazza e vice-presidente sfoggiando pantaloni rossi su una giacca blu senza cravatta - per andare in Borsa. Ci rimproverano pure per la troppa liquidità».

I rimproveri delle banche d’affari

Ma la famiglia, arrivata alla quarta generazione dall’epoca del fondatore Luigi, non cede alle sirene della Borsa e dei banchieri. Lavazza è quella che gli analisti chiamano un’azienda iper-patrimonializzata. Viaggia oltre i 2 miliardi di euro di fatturato, e 30 miliardi di tazzine servite, fa 100 milioni di profitti, ma soprattutto genera un mare di cassa: circa 100 milioni. Uno dei motivi di numeri così solidi lo si scorge dalla terrazza della esclusiva sala Lavazza a Wimbledon: nei numerosi bar disseminati tra i 18 campi da tennis, alla folla di visitatori viene servito solo ed esclusivamente caffè italiano marchiato Lavazza. Da 12 anni, la casa torinese è l’unico caffè del torneo. Per l'occasione, la bevanda calda è servita in introvabili tazzine col tradizionale marchio verde e viola. E nel caso del cappuccino, che gli inglesi amano sorseggiare al pomeriggio, dopo i pasti, sulla schiuma ci sono disegnate due racchette.

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Da Wimbledon all’Arsenal

Accanto alla ormai storica sponsorizzazione del torneo di tennis, Lavazza, che l’anno scorso proprio a Londra ha inaugurato il primo bar monomarca fuori d’Italia, sta affiancando il suo nome alle più celebri tradizioni britanniche. È appena entrato nelle corse di Ascot, evento ancor più esclusivo di Wimbledon, e strizza pure l’occhio al calcio: da questa stagione il caffè torinese sarà anche dentro all’Emirates Stadium e sponsor dell’Arsenal. Nel paese Lavazza è sbarcato nel lontano 1990: dopo 30 anni, la casa italiana si sta ritagliando uno spazio importante. «Se siamo bravi qui (dove l’anno scorso è arrivato un nuovo manager, Pietro Mazza, Ndr) siamo bravi ovunque» è la spiegazione del vice presidente.

Borsa? No, Grazie

Un’azienda come Lavazza sarebbe un nome favoloso per Borsa Italiana. «Le aziende devono avere un obiettivo, non guardare ai mezzi per arrivarci. Lavazza ha un piano di crescita che funziona. Non diciamo di no a priori alla Borsa, ma non ci serve».

Non serve anche perché, di solito, le aziende familiari italiane vanno in Borsa per risolvere problemi tra padri e figli, per non morire alla terza generazione, come vuole una nota statistica economica. Ma a Torino non hanno nemmeno il problema del passaggio generazionale: il 100% dell'azienda è della famiglia, che però da tempo ha separato proprietà e gestione. «Siamo un modello ibrido e vincente tra capitalismo anglosassone, ossia di mercato; e capitalismo familiare, tipicamente italiano» dove, nel caso di Lavazza, la famiglia fa solo l’azionista, pur con una presenza di visione strategica; e i manager gestiscono.

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