Piccole e veloci, così il marketing trova casa fuori dalle grandi città
Accanto ai centri metropolitani consolidati che hanno attratto negli anni migliaia di agenzia iniziano a crearsi in tutta Italia poli specializzati nei servizi digitali
di Giampaolo Colletti
2' di lettura
«Per quanto emozionante sia il trasloco, Seattle avrà sempre un pezzo del mio cuore». Pochi giorni fa con queste parole consegnate alla memoria di Instagram il fondatore di Amazon Jeff Bezos ha deciso di congedarsi dall’headquarter del suo colosso per fare ritorno a Miami. Nel post c’è anche uno storico video: il filmino girato dal papà nel primo ufficio, in quel garage adibito a spazio di lavoro dove nel lontano 1994 nasce l’iconica società. «Voglio stare vicino ai miei genitori. Inoltre io e Lauren adoriamo Miami», ha precisato Bezos, il terzo uomo più ricco del mondo . Ma attenzione. Il racconto di un trasloco dal distretto di South Lake Union a Seattle, oggi pieno di uffici e ristoranti, racconta molto di più. Perché è la riprova di come si stanno ridefinendo anche le geografie hi-tech rispetto al passato.
Dall’America all’Italia, dalla tecnologia al marketing: nulla è come sembra. Così si ridefiniscono i luoghi di lavoro. Accanto ai poli metropolitani consolidati negli anni e che hanno intercettato migliaia di agenzie, iniziano a crearsi nuovi distretti. Si va oltre le aree di Milano, Torino e Roma. I marketer si moltiplicano in Veneto o in Emilia-Romagna, nell’asse Adriatico segnato da Marche, Abruzzo e Molise, nelle isole maggiori di Sardegna e Sicilia, come emerge dall’analisi delle aziende attive nei servizi di marketing presenti nella classifica di Leader della crescita 2024. È un ritorno dei talenti in quei luoghi dai quali sono andati via anni prima. Una tendenza figlia della pandemia che ha accelerato formule di lavoro ibrido.
«Oggi lo sviluppo dei territori passa da quell’economia della conoscenza che diventa scalabile, condivisa, plurale. Così i distretti mutano in spazi reticolari. Per generare innovazione e quindi crescita serve produrre conoscenza complessa che si genera con il coinvolgimento di stakeholder privati e pubblici. Serve però un disegno condiviso», afferma Giulio Buciuni, professore associato di imprenditorialità e innovazione al Trinity College di Dublino e co-autore di “Periferie competitive” per Il Mulino. Ma nell’economia della conoscenza c’è il rischio di un accentramento. «Il problema sta nella rapida transizione da un’economia industriale basata su asset fisici distribuiti su ampia scala geografica ad un’economia della conoscenza dove gli asset che creano valore sono intangibili. Ci si sposta più agilmente, ma questo può favorire concentrazioni», precisa Buciuni. Una rondine non fa primavera: per segnare una reale redistribuzione bisogna moltiplicare le esperienze in ecosistemi connessi. Ancora una volta la partita è plurale.
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