Letteratura

Pico e la civiltà dell’amicizia

di Nicola Gardini

. Ritratto di Giovanni Pico della Mirandola eseguito da Cristofano Dell’Altissimo (1483-1494 ca.) e conservato alla Galleria degli Uffizi

5' di lettura

Fin dall’antichità molte idee importanti si sono comunicate per lettera. Non è esagerato dire che le lettere hanno creato buona parte del nostro mondo, e riempito numerosi scaffali delle biblioteche (fino all’altro ieri toglievano spazio anche ai cassetti delle nostre case). I greci scrivevano lettere, i romani scrivevano lettere. La filosofia e il cristianesimo si sono costruiti anche per lettera. In forma di scambio epistolare si sono composte perfino opere d’invenzione: pensiamo alle Heroides di Ovidio o a molti romanzi dell’età moderna. Alcuni epistolari si sono sviluppati secondo un disegno, con scopi ben determinati, imponendosi come modelli di comunicazione e di ragionamento per generazioni di imitatori: quello di Cicerone e quello di Seneca, per esempio. O quello di Plinio il Giovane. E – non dimentichiamolo – hanno anche dettato modelli di condotta: mettersi allo scrittoio per entrare in contatto con un assente ha rappresentato una delle pratiche più distintive dell’umana famiglia per secoli, anzi millenni.

L’epistola è forma letteraria per eccellenza: impone un destinatario, presuppone un soggetto che abbia qualcosa di necessario da dire, viaggia. Viaggia nello spazio e nel tempo, e non solo in avanti. Qualcuno ha scritto lettere perfino agli antenati, Petrarca, principe dell’epistolografia europea. La lettera si rivela ideale sia per accogliere il dibattito sia per registrarlo nelle sue tappe “occasionali” sia per restituirlo poi così, vivo e vivace, come fosse in corso. Non è un caso che una stagione particolarmente fortunata per la scrittura epistolare sia stata l’epoca dell’umanesimo. Gli umanisti si scrivevano, e in quel modo, da una parte, si scambiavano pareri, dall’altra, mettevano alla prova il loro amore per la parola, ovvero per il latino, lingua praticamente esclusiva della comunicazione colta. I loro epistolari costituiscono vere e proprie opere, trionfi dell’arte retorica, oltre che testimonianze preziose per ricostruire biografie e per accertare la cronologia di fatti e concetti.

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E sono tanto più preziosi perché sono tra i testi più elusivi della tradizione. Quando si può dire “chiusa”, infatti, una raccolta di lettere? Forse neppure quando la troviamo già pubblicata. Un giorno infatti saltano fuori pezzi stravaganti, che modificano il senso di quello che avevamo; e se non ne saltano fuori, resta sempre il sospetto che qualche pezzo debba ancora esserci, disperso chissà dove, in attesa del suo scopritore. L’edizione di un epistolario, dunque, è impresa benemerita, perché insegue il sempre fuggevole, scommettendo su una non dimostrata “invariabilità” e al tempo stesso pretendendo di fissare limiti all’alea.

Curata da Francesco Borghesi, professore di letteratura italiana alla University of Sydney, è uscita da poco l’edizione critica delle Lettere di Giovanni Pico della Mirandola per i tipi di Olschki editore. Pico morì il 17 novembre 1494. Il suo carteggio fu pubblicato a Bologna due anni dopo, curato dal nipote, Giovan Francesco Pico. Francesco Borghesi basa il suo lavoro su questo significativo testimone, mettendolo a confronto con il manoscritto Capponi 235, conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana, «l’unico altro testimone di rilievo tangibile» (un discorso di Maria Agata Pincelli sul manoscritto accompagna le pagine prefatorie di Borghesi). L’edizione di Giovan Francesco non mirava alla completezza (per una raccolta di tutte le lettere conosciute di Pico bisogna rifarsi a un’edizione su CD-Rom di Francesco Bausi, Lexis-Nino Aragno 2000). Il bravo nipote sembra aver escluso quelle lettere che potevano diminuire il profilo spirituale (savonaroliano, in pratica) di Pico. Mirando, pertanto, a un ritratto ideale, sebbene basato su tessere reali, cioè le lettere autentiche (nel numero di 47), non seguì neppure l’ordine cronologico in cui quelle erano state scritte. Borghesi mantiene questa struttura, e aggiunge una sezione di lettere extravagantes.

Il genio linguistico e l’intelligenza critica di Pico, che si esprimono indimenticabilmente nell’Oratio de hominis dignitate (composta nel 1486), informano anche il carteggio, e in particolare la lettera a Lorenzo de’ Medici del 15 luglio 1484, sulla poesia, e quella a Ermolao Barbaro del 3 giugno 1485, sulla filosofia. Qui abbiamo due capolavori della prosa umanistica, da subito molto letti, ancora fulgidi di rivelazioni. In entrambi i casi il campo disciplinare è considerato da un punto di vista linguistico. Affermando che la poesia di Lorenzo è superiore a quella di Petrarca e di Dante, Pico propone una serie di distinguo stilistici, che – tolte le ragioni della piaggeria – dimostrano una sensibilità e un gusto eccezionalmente articolati: «quello è delicato e molle, tu maschio e muscoloso. Quello scorrevole e melodico, tu compatto, pieno, saldo e intonato. Quello forse più elegante, tu certamente più grande e più eretto. Quello alquanto imbellettato, tu piuttosto teso. In lui c’è da tagliare, in te nulla di troppo e nulla che sia insufficiente…» (mia traduzione). E rispetto a Dante Lorenzo avrebbe più naturalezza e spontaneità, volando in alto non per la sublimità del soggetto, ma per quella dell’ingegno. Giudizi tendenziosi, certo, ma pur sempre capaci di segnare i contorni di un’estetica, anticipando i decisivi dibattiti primocinquecenteschi sulla funzione normativa di quei grandi poeti. Altrettanto importante la difesa dei filosofi “barbari”, del loro latinaccio di sapore medievale, che l’amico Ermolao tanto dimostra di disprezzare. Pico, che di eleganza è un gran cultore (almeno in questa fase della sua vita), si dimostra altrettanto eclettico ed ecumenico sul piano della lingua che su quello della conoscenza dottrinale: la volontà di mettere d’accordo tutte le tradizioni filosofiche che sostanzia l’Oratio si presenta già in questa lettera nella forma del rispetto per tutte le lingue della conoscenza.

Per non dire di gemme sparse qua e là, come un passo di una lettera a Paolo Cortesi, priva di data, che riflette sulla differenza tra ritratto (imago) ed epistola: questa dà forma al pensiero (mentem) e all’interiorità (intima), e rappresenta i più diversi sentimenti, dalla gioia al dolore, e infine «trasmette con la massima fedeltà all’amico assente i segreti del cuore» (mia traduzione). O gli slanci di spiritualità che compaiono nella prima e nell’ultima lettera, indirizzate al nipote (da qualcuno sono ormai considerate opera non di Pico, ma appunto dello stesso nipote).

Il carteggio di Pico ci restituisce il fervore di un ambiente, le ombre di interlocutori prestigiosi, una civiltà dell’amicizia, di cui l’umanesimo ha fatto un’ideologia. E, a proposito di amicizia, c’è un nome che continua a comparire: quello di Poliziano. Il carteggio è anche una testimonianza di questo famoso, magnifico sodalizio, patto d’amore tra intelligenze eccellenti, non solo perché Poliziano figura tra i destinatari di Pico, ma anche e soprattutto perché Pico parla di Poliziano a questo e a quello, sempre con la più commovente ammirazione. Perché una lettera, rivolgendosi in particolare a uno, può benissimo rivolgere le sue nostalgie a un altro.

Lettere

Giovanni Pico della Mirandola

edizione critica a cura di Francesco Borghesi, Leo S. Olschki editore, pagg. 188, € 26

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