Pier Paolo Pasolini, una voce di giustizia e verità in un mare di degrado e desolazione
Nel 99esimo anniversario dalla nascita Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, delinea la figura dell'intellettuale corsaro
di Asia Vitullo
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Oggi, 5 marzo, a novantanove anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, lo sperimentatore che visse combattendo contro la frattura di una società sempre più omologata, lo ricordiamo con Roberto Chiesi. Il critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna delinea la figura del poeta, dell'intellettuale corsaro e della sua inscalfita attualità.
Come ricorda il suo primo e personale incontro con il poeta friulano? Cosa, in prima analisi, l'ha affascinata?
«Il primo incontro con Pasolini fu la notizia della sua morte, quando ero bambino. Rimasi turbato dalla violenza, dalla ferocia, dalla crudeltà con cui era stato ucciso. Ricordo il sentimento di ingiustizia che provavo. Non sapevo nulla di complotti, di teorie sul delitto o altro, ovviamente, ma mi sembrava un'ingiustizia intollerabile che il reo confesso, Giuseppe Pelosi, potesse ostentare un sorriso sazio di soddisfazione davanti ai fotografi e alla stampa. Mi sembrava un'immagine oscena e, appunto, profondamente ingiusta.Il vero primo incontro con Pasolini avvenne quando avevo undici anni e vidi in televisione Uccellacci e uccellini. Non lo volli vedere per Pasolini ma per Totò, che amavo. Ma la scoperta di Pasolini, del suo immaginario, mi sconvolse. Rimasi folgorato, affascinato, anche per un effetto magico di dèjà vu: infatti mi accorsi che in realtà avevo già visto venti minuti del film anni prima, quando ero piccolissimo, la prima volta che venne trasmesso in Tv nel 1971 e alcune immagini mi si erano impresse con la forza e l'intensità dei sogni».
Considerando Petrolio, romanzo di Pasolini rimasto incompiuto e pubblicato nel 1992 da Einaudi, si può, secondo lei, intravedere una sorta di interrogazione vera e propria sullo statuto della letteratura, una critica diretta e indiretta allo sperimentalismo del Gruppo '63?
«Il progetto di Petrolio era importante per innumerevoli motivi per Pasolini: doveva rappresentare il ritorno alla letteratura dopo tanti anni di cinema (anche se non l'aveva mai abbandonata, tranne la poesia nell'ultimo anno), nel senso che si trattava di un enorme e ambiziosissimo progetto letterario cui intendeva dedicare molti anni di lavoro. Aveva annunciato che gli sarebbero stati necessari altri cinque anni, un tempo lunghissimo per un artista come lui, indotto dalla sua natura a “bruciare” opera su opera, ossia a realizzarne freneticamente una dopo l'altra. Sì, penso che attraverso questo corpo di romanzo, Pasolini interrogasse anche il senso della letteratura perché Petrolio doveva essere un atto d'accusa durissimo e documentato, contro il mondo politico, contro le trame della strategia della tensione, contro un potere che egli vedeva come mostruosamente criminale. E al tempo stesso doveva essere un viaggio dantesco, visionario e onirico, nelle oscurità e nelle contraddizioni del proprio io così come nelle viscere dei fenomeni sociali e antropologici. Nelle ambizioni di Pasolini, doveva essere anche un'opera che avrebbe fatto impallidire lo sperimentalismo del Gruppo '63, conducendo le alchimie della sperimentazione narrativa fino alle estreme conseguenze, in un tessuto dove avrebbe fuso insieme stili e generi completamente differenti».
Qual è la realtà che vive e si sviluppa all'interno del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna?
«È una realtà di studio, ricerca, attività saggistica e progettazione. Studio dell'opera di Pasolini, basato sull'archivio costituito dal 1975 al 2003 da Laura Betti».
Negli ultimi anni si è assistito ad una fioritura di studi critici riguardanti le esperienze drammaturgiche dell'autore, non più considerate come un'esperienza circoscritta. Enrico Groppali parla di «teatro di ombre» (L'ossessione e il fantasma. Il teatro di Pasolini e Moravia, Marsilio 1979); cosa ha voluto portare in scena Pasolini? Le ombre della società o le ombre della sua interiorità?
«Direi che nel suo teatro abbia voluto soprattutto evocare le ombre della propria interiorità, le ombre delle pulsioni più oscure. Il suo è un teatro da camera, crudele e spietato. Non a caso le sue tragedie sono quasi tutte calate in un ambiente borghese, il che costituisce una novità per un artista come lui che aveva fino a quel momento privilegiato il mondo contadino friulano o quello sottoproletario delle borgate romane. Ma come sempre Pasolini non può dimenticare il contesto, l'esterno, i fenomeni sociali e storici. È a questo che allude con il lager di Calderòn, un lager metaforico di un mondo massificato dove ogni diversità viene normalizzata e quindi soppressa. I primi film di Pasolini, da Accattone a Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re, erano realizzati sotto il segno di Gramsci. Con il passaggio in Italia da un'epoca prevalentemente agraria ad un'epoca neocapitalista, Pasolini si rifiutò di confezionare prodotti consumabili dalla cosiddetta massa. Quindi «ho fatto film d'élite […] un atto, per quanto forse inutile, di democrazia» come lui stesso dichiara nel programma Cinema '70 RAI, andato in onda il 28 gennaio 1970».
Secondo lei il regista friulano è riuscito a realizzare un modello di cinema democratico?
«Sì, nel senso che il suo cinema (al pari di quello di altri autori del cinema italiano del suo tempo come Fellini, Antonioni, Visconti, Rossellini e molti altri) non era fatto in serie, non rispondeva a mere esigenze commerciali, non era un “prodotto” convenzionale ma nasceva dalla sua volontà espressiva e si rivolgeva agli spettatori cercando di coinvolgerli anche in scelte narrative ed estetiche non facili, che li disorientavano o potevano anche irritarli. Non dimentichiamo che la maggior parte dei film di Pasolini ha trovato un dialogo col pubblico, è riuscito ad attirare la sua attenzione, nel senso che hanno avuto successo, alcuni clamoroso (i tre film della Trilogia della vita ma anche Salò, anche se quest'ultimo è stato un successo particolare, di scandalo), altri notevole (Accattone, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re, Teorema)».
Ne La ricotta (1962), Pasolini faceva pronunciare a Orson Welles queste parole – di risposta alla domanda «Cosa ne pensa della società italiana?» – «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa». Come l'autore descriverebbe la società italiana di questi ultimi anni?
«È difficile dirlo, Pasolini era imprevedibile e quindi è difficile tentare di prevedere oggi che cosa penserebbe o direbbe. Io credo che vivrebbe in un rifiuto integrale e assoluto di questo nostro presente, che ne soffrirebbe in modo inaudito ma al tempo stesso reagirebbe e trasformerebbe questo odio, questo rigetto in un'energia combattiva e attiva. Credo che, per esempio, non potrebbe accettare l'immagine della gente che passa la maggior parte del suo tempo a tenere gli occhi incollati a uno smartphone. Credo che odierebbe la cultura della virtualità con tutte le sue energie, perché era un uomo che amava il rapporto fisico, concreto, diretto con la realtà. Credo che condannerebbe il nuovo genere di barbarie degradata in cui viviamo immersi e di cui neanche ci accorgiamo più. Ma è davvero molto difficile immaginare Pasolini già negli anni '80 e '90. Forse si può azzardare soltanto una cosa: non si arrenderebbe, non si sottometterebbe mai a questa dimensione, come non si era arreso e non si era sottomesso agli anni '70, che odiava».
È da un po' di tempo oramai che si sta assistendo ad una rivalutazione della filmografia del cineasta, penso a Teorema, il controverso Salò e non solo. Perché a suo avviso?
«Ne è stata riconosciuta l'importanza e l'originalità anche al di là della sua voluta o spontanea “sgrammaticatura” o forse anche proprio per questo. Il cinema di Pasolini è un fenomeno artistico unico, la forza delle sue immagini, dei corpi e dei luoghi che ha mostrato e che ha raccontato, si è imposta sul fatto che molti suoi film non fossero fluidi, che avessero degli “errori” tecnici. Ogni suo film, anche i meno riusciti, ha una tale densità di idee, di visioni, che rappresenta un'esperienza intensa per uno spettatore che cerca delle emozioni estetiche e intellettuali. I “difetti” tecnici del cinema pasoliniano si sono rivelati privi di qualsiasi importanza perché quello che conta è la vitalità, l'unicità estetica di questo cinema che attualmente ha assai meno detrattori rispetto agli anni in cui Pasolini viveva e operava».
Cosa resta di Pier Paolo Pasolini nel 2021?
«Paradossalmente proprio oggi che il mondo non somiglia quasi più, per nulla, a quello che Pasolini ha conosciuto e amato, paradossalmente proprio in quest'epoca Pasolini è uno dei pochissimi artisti italiani che non soffre di oblio in Italia, anzi, semmai è perfino sovresposto. Questo paradosso si spiega in parte col fatto che Pasolini (anche a causa della sua morte) è diventato un mito, ossia la sua figura è fusa e identificata con la sua opera in un tutto unico (il che ha anche degli svantaggi). E in parte si spiega proprio con la radicale diversità della sua visione, del suo linguaggio, della sua poetica, rispetto al nostro presente, diversità che però ha una forma multimediale, ossia l'immagine di Pasolini vivo che parla la si può trovare ovunque sulla rete. La sua diversità irriducibile costituisce una sorta di imprescindibile coscienza critica di quello che siamo stati e di ciò che siamo diventati. Bisogna passare attraverso le sue parole e le sue immagini per comprendere fino in fondo quello che è avvenuto, le trasformazioni che ci hanno reso quello che siamo. Ecco perché continuiamo a interrogarlo. Perché abbiamo una continua necessità e fame della sua inattualità che è più attuale che mai».
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