Pinocchio cerca un padre
di Renato Palazzi
4' di lettura
Probabilmente Collodi, che voleva far morire Pinocchio impiccato per mano degli assassini, e ha dovuto resuscitarlo in seguito alle proteste dei piccoli lettori, avrebbe apprezzato questa fosca messinscena del suo libro realizzata da Antonio Latella per il Piccolo Teatro di Milano: dire che lo straripante, ossessivo, amorevole, disperato Pinocchio di Latella è totalmente immerso in un clima di paura e di morte è, in fondo, ancora poco. Se ne esce inevitabilmente scossi, magari provati da un accumulo di effetti e sensazioni che investono senza sosta la platea, ma comunque segnati da un’esperienza molto forte, una delle più forti nel percorso del regista.
Lo spettacolo, non a caso, si apre con l’immagine nera, spettrale di una sinistra “fata dei capelli turchini” che evoca urlando con voce roca il gesto di un diavolo della mitologia finlandese intento a piantare la sua ascia nei ceppi lanciando maledizioni sui boschi. E l’adattamento del testo – la drammaturgia è di Latella, di Federico Bellini e Linda Dalisi - è costellato di ricorrenti e quanto mai pertinenti richiami all’Inferno dantesco: «Per me si va...», «Per me si va», farfuglia a più riprese un Pinocchio un po’ dislessico, fin quando il Pescatore Verde non esplicita infine la citazione, «Per te si va nella città dolente, per te si va nell’eterno dolore...».
Qualcosa di dantesco c’è anche nella fitta nevicata di trucioli di legno che si riversa incessantemente sul palco dall’inizio alla fine, investendo oggetti e personaggi, diventando il cibo che mangiano, l’acqua che bevono, il precario giaciglio su cui si sdraiano. Un gigantesco tronco d’albero ronconianamente proteso fino al centro della scena a scandirne e dividerne lo spazio fa da metaforica origine di questi fiocchi innaturali. E lo stesso Pinocchio non ha un naso che si allunga, né un corpo da fantoccio, ma solo un ceppo appeso al collo, a ricordare simbolicamente la sua agghiacciante nascita, partorito dal ventre del banco di lavoro di Geppetto.
Pinocchio, in effetti, non è una rigida figura artificiale, è un essere ambiguamente in carne e ossa, a metà fra un neonato e un adolescente ribelle, energia vitale allo stato puro, ignorante, restio a qualunque disciplina ma generoso e in fondo credulone, frastornato dalle ipocrisie del mondo adulto, senza figure di riferimento. Il tema della genitorialità in tutte le sue contraddizioni – con quello di una società dove tutto è finzione – è d’altronde l’asse portante dell’intera operazione, a partire dalle metamorfosi di un Mastro Ciliegia-fatina-mamma e di un Geppetto che incarna tutti i ruoli dell’autorità, padre-Mangiafoco-Pescatore Verde-Padrone del circo.
Latella per certi versi ribalta il senso di un suo precedente spettacolo, Ma, in cui dava voce allo strazio della madre di Pasolini sul corpo del figlio assassinato. Qui la madre-fatina rivendica solo un potere su quel figlio di cui ha bisogno per «completare il percorso di una vita». E il padre-Geppetto lo ha voluto per farne un docile burattino da muovere a proprio piacimento. «Fare un figlio non vuol dire amarlo», afferma ferocemente dopo averlo abbandonato a più riprese. Latella ribalta anche il finale del suo Natale in casa Cupiello: in questo caso il figlio non soffoca il padre per pietà, ma cerca di rianimarlo, spera che la sua morte sia soltanto simulata.
Quest’ultima scena, in cui Pinocchio si trasforma non in bambino, ma in un giovane uomo di oggi finalmente in cerca di un rapporto col genitore, sembra essere l’unico scorcio di verità – e persino di spiazzante realismo - in un opprimente paesaggio dove tutto è posticcio: non solo la neve è fatta di segatura, c’è un proliferare di gufi impagliati, di pulcini di peluche, di barbe finte, e i soli arredi sono le macchine teatrali del vento e del tuono. Anche Pinocchio, in preda alla «febbre del sabato sera», è conscio di vivere in un mondo «pieno pieno di burattini come me, di marionette, di pupi, di robot, di robot assemblati, di robot auto-assemblati, di automi...».
Poi, certo, c’è la lingua caustica e fibrillante di Collodi, contaminata con le più imprevedibili citazioni, da Kleist a Carrère. Spicca la geniale tirata di Mangiafoco contro lo studio del testo a memoria, contro lo sforzo di entrare nel personaggio, a favore del lazzo «ogni sera diverso». Tutti, animali, maschere, burattini si lanciano spesso in puntigliose dispute filosofiche, per lo più sui rapporti tra anima e corpo, tra fare e creare. Quanto al Pinocchio di Carmelo Bene, non vedo attinenze. Ma se devo azzardare un accostamento, mi viene in mente piuttosto la sua Cena delle beffe: stessa scomparsa della pietas, stessa definitiva eclisse dell’umano.
All’impatto emotivo dello spettacolo concorrono le scene di Giuseppe Stellato, i costumi di Gabriella Pepe, le luci di Simone De Angelis, le musiche e i suoni di Franco Visioli, fondamentali nell’evocare un clima onirico, e ovviamente le qualità degli attori: Christian La Rosa, che faceva Oreste in Santa estasi e qui non riesce a dire mamma, suggerisce con inquieto estro espressivo un Pinocchio dall’esuberanza meccanica, incontrollata, un po’ patetica e un po’ mostruosa. Ma sono bravissimi anche Massimiliano Speziani, il Geppetto padre-padrone, Anna Coppola, la fatina satanica, Fabio Pasquini con le lunghe antenne del Grillo, sempre presente, anche da morto, nel cuore dell’azione.
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