Italia

Più politiche per la famiglia nell’Italia che invecchia

di Carlo Carboni

(© Jiri Hubatka/imageBROKER)

3' di lettura

Dovremmo essere più generosi con il futuro della nostra comunità nazionale. Rappresenta di per sé un bene per i nostri figli, giovani e ragazzi, italiani e nuovi italiani. E invece no. L’Istat, ieri, ha sottolineato la riduzione della nostra popolazione, attribuibile in via determinante al calo “storico” del tasso di fecondità - che si inabissa a 1,34 figli per donna (1,27 le italiane, 1,95 le immigrate), corroborato da un ulteriore balzo in avanti di quanti, ogni anno, lasciano sconsolati il Bel Paese per l’estero (giovani in maggioranza). L’Italia di oggi non sembra un Paese per giovani e tanto meno per bambini. Per aumentare un tasso di fecondità che rischiava di andare a picco, altri Paesi europei hanno intrapreso anni addietro politiche socio-demografiche molto più efficaci di quelle spot “all’italiana”: nella convinzione che nuovi francesi o svedesi costituiscano il primo bene per la comunità nazionale. Si aggiunga che gli italiani spesso fanno “buon viso a cattivo gioco” e sfoderano tutto il loro individualismo amorale, facendo orecchie da mercante quando si parla di nascite, di bambini e di giovani. Tante parole, ma poi manca la convinzione per mettere in atto ciò che si dice di voler fare. È persino inutile elencare le carenze dei servizi che in questo Paese accompagnano i nuovi italiani, dalla prima infanzia fino ai livelli di scolarizzazione superiore. Con questa mentalità e con questi servizi inadeguati a sostegno delle coppie con figli, pure il futuro sarà dei vecchi. I bambini e i giovani d’oggi, oltre ereditare un debito pubblico da record e svariate altre maglie nere, solo dopo i 50 anni potranno riconoscersi protagonisti, più o meno insider, di questa comunità nazionale. Come già avviene oggi con gli ex baby boomer del miracolo economico, in forte aumento: gli over 65 sono 13,5 milioni (727mila i novantenni!). Da un canto, è un segno positivo di longevità e di progresso. Dall’altro, ha profondamente modificato il raggio della coalizione degli insider che condiziona spesa e decisione nel Paese, oggi a larga maggioranza con oltre 50 anni. È un segno del grave divario generazionale che si è formato nel nostro Paese (Fondazione Visentini 2017). Una componente cruciale delle attuali disuguaglianze è proprio l’esplosione, dal 2000 a oggi, di quelle da reddito e da ricchezza tra anziani e giovani, a netto favore dei primi.

Occorre ripartire dai numeri considerando che gli italiani over 60 anni sono il 28% della popolazione e altrettanti sono i giovani in senso esteso dai 15 ai 39 anni. Siamo quindi a rischio di sorpasso. Gli allarmi si sono susseguiti. La rottamazione non basta anche perché una società invecchiata non ha bisogno di mettere da parte i sessantenni e oltre, ma di recuperare quelli che la saggezza - memoria ed esperienza - non l’hanno smarrita.

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Dobbiamo chiederci se possa esserci un programma di governo vincolato nel medio-lungo periodo che si occupi di governare queste trasformazioni sociodemografiche. In breve, che preveda misure di sostegno a quanti decidano di avere un figlio o di adottarlo. O magari promuova il numero dei nidi, scuole materne e attività di tempo pieno nell’obbligo scolastico. Visto lo stato dei nostri servizi e il forte aumento dei consumi per servizi alla persona tra le famiglie, la domanda di lavoro di “cittadinanza”, almeno su questo fronte, sarebbe abbondante, come è abbondante il numero dei nostri giovani diplomati e laureati “a spasso”. Basterebbe organizzarlo piuttosto che farne un gioiello della giurisprudenza del lavoro. A parte limiti e potenzialità del terzo settore, non c’è una capacità organizzativa adeguata a mettere domanda e offerta. Quando parliamo di carenze di logiche di sistema Paese, sono anche queste: non ci distinguiamo per organizzazione e non mordiamo sui grandi temi di lungo periodo. Alle incertezze del mondo globale, si aggiunge la percezione degli italiani che il timone sia sempre in mano a chi è costretto a navigare a vista, senza mai conoscere le rotte di medio-lungo raggio. Dal dopoguerra a oggi, i momenti migliori il Paese li ha però conosciuti quando al timone c’era chi seguiva quelle rotte e con esse orientava le aspettative di tutto l’equipaggio.

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