«Più tennis per tutti: così conquisteremo quel che ci spetta nella torta globale dello sport business»
Gli italiani?. «L'exploit farà bene ai giovani: nello sport come nell'hi-tech ci serve più fiducia nei nostri mezzi»
di Marco Ferrando
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Tutto torna, e spesso torna utile. Nella vita, negli affari, nello sport. E così capita che Andrea Gaudenzi, dopo aver scalato fino alla 18esima piazza il ranking mondiale del tennis sfiancando gli avversari più che brutalizzandoli con il serve-and-volley, vent’anni dopo sia ancora qui – fuori dal campo – a far leva sulla pazienza più che sulla potenza. «Per chi, come me, non aveva nell’ace l’arma vincente e a rete ci andava solo quando doveva, non restava che sviluppare doti di resilienza», racconta. Tra le poche stelle nella lunga notte del tennis italiano fra le generazione dei Panatta-Barazzutti e quella dei Berrettini-Sinner, Gaudenzi in carriera ha portato a casa un argento in Coppa Davis e soprattutto tre titoli Atp. Casablanca, Sankt Pölten (Austria), Open di Svezia. Sempre su terra rossa, dove fa la differenza essere grandi palleggiatori. Gaudenzi pallettaro? «Altri lo erano più di me!», dice oggi con l’ironia tipica faentina che all’epoca contagiava anche l’indefesso e (apparentemente) serioso Thomas Muster, di cui per anni è stato compagno di allenamento e coprotagonista di una memorabile semifinale a Monte Carlo che l’austriaco ha terminato vittorioso ma in barella.
Chiusa nel 2003 la carriera agonistica, il tempo di conseguire una laurea in giurisprudenza più un Mba e di mettere su una famiglia con tre figli (tutti tennisti), dal 2020 Gaudenzi torna in campo. Da presidente Atp. E non ha cambiato il suo stile di gioco. Anzi, proprio per quel mix di esperienza e determinazione sul campo e nel business l’hanno scelto Federer&Co, quando la rottura con il “circo” sembrava a un passo. E lui ha trovato conferma del fatto che «lottando sempre, non mollando mai» è più difficile sbagliare e più facile portare a casa il punto: «Forse qui è meno divertente, ma altrettanto appassionante», racconta a pochi giorni dalle Atp Finals che da domenica prossima si terranno a Torino per il secondo anno consecutivo. «Per il tennis siamo nel pieno di una svolta. Perché è arrivato il momento di monetizzare la sua popolarità: non è pensabile che il quarto sport al mondo per numero di fan abbia una quota dell’1,3% dei diritti televisivi». Tradotto: oggi al tennis arrivano appena 700 milioni di una torta che a livello globale ammonta a quasi 50 miliardi, e che valgono un contributo di 0,7 dollari per appassionato. Cifre che danno l’idea di quanto siano ampi i margini di crescita del business e della soddisfazione sia per il pubblico (dirette, sintesi, contenuti social) che per i giocatori (premi). Argomenti con cui Gaudenzi ha convinto almeno questi ultimi della necessità di unire le forze, tra loro e con gli altri grandi soggetti che muovono il tennis (le federazioni maschile e femminile e i quattro tornei del Grande Slam), in una governance che oggi lo vede costretto a negoziare sempre tutto con il board, il comitato dei giocatori e quello dei tornei. «È un processo di consultazione che un imprenditore non reggerebbe», ma che non spaventa chi stava per ore sul campo a giocarsi ogni punto dopo scambi spesso interminabili. «Qui ho trovato molta politica, spesso una mentalità parasindacale, ma vedo segnali del necessario cambiamento culturale, e anche di prodotto».
Per uno sport che vede l’80% del tempo di una partita a palla ferma, «certo c’è spazio per velocizzare alcune fasi e tagliare i tempi morti», ammette Gaudenzi. Ma non è questo il punto. L’essenza del tennis non è in discussione e alla fine «una finale di Wimbledon non potrà mai essere accorciata», dice. Piuttosto, «quello che si può fare è consentire modalità di fruizione diverse, che consentano di godere del tennis anche a chi ha meno tempo da dedicare e cerca, comunque, contenuti di qualità». Eccola qui, la strada del premium. Dove il tennis incrocia i megatrend dell’industria dell’entertainment, e il tennista veste i panni dell’uomo di impresa, che nel suo percorso professionale costruito lontano dalla racchetta ha incontrato una schiera di innovatori seriali che vanno da Carlo Gualandri, incrociato in Bwin, a Max Ciociola, capace di catturare Gaudenzi e farne uno dei partner nell’avventura di Musixmatch, start up protagonista di una delle exit più remunerative e blasonate del venture capital italiano. «Come insegnano alcuni grandi sport, dal basket americano alla Formula 1, la capacità di costruire un’offerta premium consente di allargare il mercato alzando la qualità dell’esperienza offerta: è solo così che possiamo catturare e fidelizzare l’attenzione del nostro miliardo di appassionati».
In una delle sue più celebri frasi, Reed Hastings, il fondatore di Netflix, diceva che «il nostro più grande avversario è il sonno». Gaudenzi l’ha fatta propria, l’ha messa al centro del suo piano di rilancio dell’Atp e poi proprio con Netflix ha firmato un accordo per una serie dedicata al tennis. Perché tutto fa, pur di rimescolare una struttura dei ricavi del tutto anacronistica, che oggi vede il 35% dei ricavi dell’industria del tennis ancora legati ai biglietti (più del doppio dei grandi campionati di calcio) e appena il 20% dai diritti tv (meno della metà dell’Nba). «Viviamo in una situazione paradossale: oggi il tennis sta attraversando un momento di grande successo, dunque la domanda di contenuti è ai massimi storici. Ma proprio per questo ci permettiamo di non alimentarla, stimolarla ed educarla». Ma come si spiega? «Tra i maggiori ostacoli a sviluppare un’offerta più variegata e di qualità c’è stata la frammentazione del mondo del tennis: con le federazioni e i grandi tornei che giocano ognuno per sé ancora manca un’aggregazione unica dei dati, con il risultato che nessuno è in grado di mappare il nostro pubblico. Abbiamo un miliardo di fan, ma non sappiamo come si chiamano, dove abitano, che gusti anno. Padroneggiando questi dati non si potrà che fare meglio». L’uscita di scena di due campioni come Roger Federer e Rafa Nadal rischia di rovinare la festa? «Non credo proprio. Se ci guardiamo indietro, la storia recente del tennis è stata scandita da cicli e rivalità che hanno sempre saputo rinnovarsi. Il prodotto oggi è forte e continuerà a esserlo, penso ad esempio ai nostri nuovi fenomeni, come Carlos Alcaraz, Stefanos Tsitsipas o a Jannik Sinner... e poi le donne. Ecco: il tennis oggi è l’unico sport ad avere un’audience paritetica di uomini e donne, perché la spettacolarità è elevata sia da una parte che dall’altra. Questa è un’altra carta importantissima che ci può differenziare moltissimo».
Gaudenzi cita Sinner, e poi aggiunge i nomi di Matteo Berrettini, Lorenzo Sonego e Lorenzo Musetti, avanguardia di un italtennis che tra gli uomini conta cinque azzurri nei primi 60 al mondo del ranking Atp e quattro azzurre nelle prime 65 della classifica Wta. «È quello che ci mancava, da tanto tempo. Per divertirci, ma anche per motivare le nuove generazioni: grazie a questi campioni oggi chi inizia a giocare a tennis in Italia tocca con mano che siamo bravi anche noi, che non abbiamo nulla di meno dei mostri sacri e possiamo arrivare in finale a Wimbledon o stazionare tranquillamente nella top ten». Una consapevolezza che in passato è mancata per tanti anni, finendo per alimentare una sudditanza più di testa che di gambe. «Se c’è una cosa di cui spesso, troppo spesso, noi italiani siamo carenti è la fiducia in noi stessi», ragiona Gaudenzi. Che l’ha sperimentato in entrambe le sue vite, prima in quella da sportivo e poi nella conversione al business e alla tecnologia. «Anche nel venture capital e nelle start up dobbiamo smetterla di cullarci nel mito della Silicon Valley e nell’ambizione assolutamente fuori luogo di scimmiottarla in casa nostra. È impossibile, e soprattutto non ne abbiamo bisogno: l’ecosistema italiano dell’innovazione è cresciuto di qualità e quantità, ed è ormai entrato nel radar dei grandi operatori, come dimostra il miliardo investito nel 2021 che già quest’anno dovrebbe raddoppiare, nonostante le incertezze del quadro macro. È la dimostrazione che i talenti non ci mancano, e non abbiamo nulla da invidiare ai nostri competitor». Dal tennis al business, torna alla mente il caso già ricordato di Musixmatch, l’app tra i leader mondiali nella pubblicazione dei testi musicali, che ha chiuso il 2020 con 13,5 milioni di ricavi, per il 2023 punta verso quota 100 ed è finita al colosso del private capital Tpg per una cifra decisamente insolita per le abitudini di casa nostra. «Abbiamo aspettato, e l’attesa ha premiato», conclude ora Gaudenzi da protagonista della storia della scale up bolognese: «Pazienza e determinazione, la strategia è sempre quella».
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