Pmi alla prova del darwinismo digitale
di Max Bergami
4' di lettura
La rivoluzione digitale prosegue in maniera pervasiva, con un ritmo che tende ad accelerare. Le grandi imprese si stanno attrezzando mediante investimenti che spesso includono rilevanti costi di apprendimento, mentre quelle di minori dimensioni hanno la tentazione di stare alla finestra, in attesa di capire quali possano essere le applicazioni su cui scommettere.
Si tratta di un atteggiamento comprensibile, in un momento in cui la competizione si manifesta anche attraverso una forte pressione sui costi, ma rischioso per il sistema economico italiano composto prevalentemente da Pmi manifatturiere. Ogni generalizzazione rischia di proporre semplificazioni eccessive perché sono numerosi i casi di applicazioni fortemente innovative sviluppate da imprese nuove o da organizzazioni in grado di di reinventare il proprio modello di business, ma il quadro di un sistema economico a due velocità è più che una sensazione.
Le tecnologie abilitanti nell'ambito dell’Industry 4.0 sono ormai numerose e ampiamente disponibili: sensori, Internet of things, piattaforme cloud, Big Data Analytics, Cyber-Physical Systems, Auto ID, High Performance Computing, materiali avanzati, droni, robot, additive manufacturing e stampa 3D, interfacce uomo-macchina, comunicazioni wireless e mobili, community e piattaforme social, reti ubiquitarie (pervasive internet)…
Molti dei campioni del made in Italy stanno prendendo questa direzione mediante acquisizioni o scommettendo su progetti di innovazione tecnologica all'interno dei propri sistemi produttivi. Nel caso di business tradizionali, tuttavia, alcuni leader aziendali confessano in privato che questi investimenti inglobano una parte di costi necessari a entrare in un nuovo mondo, mediante lo sviluppo delle competenze organizzative necessarie a operare con le nuove tecnologie. In altre parole, sembra di esser di fronte a un modello di innovazione basato sulla disponibilità di risorse “slack”, senza un necessario ritorno di breve periodo di ogni euro investito. Si tratta di un approccio contemplato dalla letteratura manageriale e contrapposto a un orientamento guidato dall'innovazione incrementale, più coerente a situazioni di pressione sui costi; è una strada percorribile da imprese di successo medio-grandi e grandi, in grado di sostenere questo tipo di investimenti in ricerca e sviluppo, nel campo dell'innovazione sia di prodotto sia di processo.
Quando invece le risorse disponibili sono più limitate, a causa di una minore redditività aziendale o di dimensioni più limitate, il percorso si presenta più difficoltoso perché la percezione dei rischi induce un comportamento più prudente. Non è una caratteristica delle sole imprese italiane, ma comunque un punto di attenzione per la competitività del Paese, vista la struttura del sistema produttivo nazionale. Un elemento di riflessione aggiuntiva riguarda la cybersecurity, un altro ambito in cui le diverse velocità tra questi due gruppi è evidente e i rischi elevati.
Di fronte a questa inarrestabile evoluzione sono possibili diverse posizioni: la prima si basa sull'assunzione che la sopravvivenza dipenda unicamente dal Dna delle imprese, accettando un'inevitabile selezione naturale; la seconda è che sia possibile un'evoluzione che consenta a tutte le imprese di affrontare i cambiamenti dell'ecosistema. Una posizione intermedia, forse più ragionevole, è che non esista solo la possibilità di naturale sopravvivenza o morte, ma anche una terza opzione che consiste nella capacità di attivare i geni dormienti.
La rivoluzione digitale in questo senso rappresenta una grande opportunità per il sistema economico anche se è necessario che le istituzioni e le aziende si muovano in maniera rapida e precisa. Una premessa importante riguarda l'ambito di intervento: la competitività dell'economia italiana non dipende, in questo momento, solo dallo sviluppo di nuove tecnologie, ma (e forse soprattutto) dalla capacità di favorire l'adozione di quelle disponibili. Dal punto di vista delle politiche economiche, serve concentrarsi sull'evoluzione dei cluster produttivi territoriali e non solo delle singole imprese. In questo senso appaiono promettenti i piani “Industry 4.0” del ministero dello Sviluppo economico, impegnato nella costruzione di Centri di competenza e in altre azioni volte a sostenere l'adozione di nuove tecnologie, come quelli di alcune regioni che stanno investendo in maniera selettiva sullo sviluppo di ambienti favorevoli ad alcune applicazioni (nel caso dell'Emilia Romagna i big data). Oltre agli investimenti, la principale condizione abilitante all'adozione di nuove tecnologie sta nel capitale umano. Insieme alla formazione dei giovanissimi, nelle scuole primarie e secondarie e alla nascita di nuove lauree specialistiche, a livello universitario è necessario offrire elementi di cultura digitale in maniera pervasiva, indipendentemente dal tipo di corso.
Tuttavia, questo livello non è sufficiente perché il tempo necessario a impiegare questi ragazzi è incoerente con la velocità del cambiamento ambientale; per questo motivo è indispensabile pensare a progetti formativi diffusi destinati ai trentenni e quarantenni che ricoprono le posizioni manageriali. I contenuti più rilevanti non riguardano le tecnologie in sé, ma i processi di adozione delle tecnologie e di ridefinizione dei modelli di business, soprattutto mediante l'analisi di casi di successo.
Questa è una responsabilità del pubblico, delle imprese e dei singoli. A livello di impresa, è interesse delle grandi, come quelle di minori dimensioni individuare percorsi comuni di evoluzione digitale; in questo processo è richiesto che gli attori più evoluti facciano la prima mossa, trainando tutta la filiera, anche perché una selezione dei piccoli fornitori rappresenterebbe una minaccia molto seria per tutti.
La storia economica è piena di esempi di selezione naturale di imprese a seguito dell'ingresso di nuove tecnologie, in questo caso però le tecnologie sono disponibili e offrono grandi opportunità a chi le vuol cogliere. Però bisogna fare presto.
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