Poco Made in Italy sulle tavole estere? Mancano le competenze, non le catene di Gdo
di Ilaria Vesentini
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In uno scenario di consumi alimentari interni fermi e di mercati esteri sempre più affamati di made in Italy, come conferma il +75% di export del nostro agrifood negli ultimi dieci anni, la via oltreconfine diventa obbligata per le imprese del settore. Facile a dirsi, meno a farsi. Perché quando su 58mila realtà attive nella filiera alimentare del nostro Paese, appena l’1,7% ha più di 50 addetti (ma il 60% delle esportazioni si concentra in questa fascia dimensionale di aziende, dati Nomisma) e quando sulle piazze globali non c’è un’insegna italiana della Gdo a fare da traino alle nostre eccellenze, la strada per portare sulle tavole degli stranieri la cucina tricolore appare impervia.
Eppure sembra essere più un problema di competenze che di dimensioni, se l’incidenza dell'export sul fatturato dell’agroalimentare è ancora così basso, il 23,4%, oltre dodici inferiore alla media del manifatturiero italiano (che esporta oltre il 35% di quanto produce).
«È un alibi la ormai, l’assenza della Gdo italiana all’estero sicuramente ha rallentato l’internazionalizzazione del made in Italy nei decenni passati, ma oggi lo spazio a scaffale c’è, a prescindere dalla bandiera del negozio. Basta guardare lo spazio occupato dall'italian sounding. E ci sono piattaforme logistiche e digitali per arrivarci, alla portata anche di Pmi. Quello che manca nelle nostre imprese sono le competenze, l’apertura mentale dell'imprenditoria e del management a saperi e capitali esterni», stigmatizza Luigi Scordamaglia, presidente Federalimentare, intervenendo all’ultimo convegno organizzato da Assochange a Bologna, epicentro della food valley nazionale. Per fare il punto sui trend di cambiamento dell'industria più rappresentativa della via Emilia, terra che guida le regioni europee per Dop e Igp (44 etichette tutelate per 2,5 miliardi di euro di giro d’affari).
«In realtà stiamo rilevando un cambio di passo in logica 4.0 e lean anche in un settore sinonimo di tradizione e artigianalità come l’agroalimentare, a partire dalle imprese più strutturate. Il vero problema sta nello scollamento tra le strategie di change management decise ai vertici e le persone in organigramma che devono diventare attori di quel cambiamento», sottolinea Salvatore Merando, presidente di Assochange, associazione che dal 2003 riunisce imprese, università e istituzioni per diffondere consapevolezza sulla “gestione del cambiamento”.
Da un lato le imprese dell’agroalimentare stanno vivendo un’accelerazione di digitalizzazione e lean management, grazie soprattutto all’organizzazione produttiva in filiera che determina un effetto traino sui fornitori a monte, con un’integrazione fino a coltivatori e allevatori da parte dei grandi gruppi, come raccontano i casi Granarolo, Inalca-Cremonini, Barilla, Amadori, tutti testimonial del convegno Assochange alla Bbs-Bologna business school. Dall’altro lato, a valle, sono diverse le strategie che i protagonisti italiani della distribuzione organizzata stanno mettendo in atto per resistere all'effetto Amazon con un retail 4.0 “all’italiana”. Dai nuovi canali si spesa online delle insegne tradizionali come Esselunga e Coop ai supermercati Unes/U2 che hanno stretto una partnership con la piattaforma Amazon per i prodotti a marchio “Il viaggiator goloso”.
«Provare ad andare ora all’estero con la nostra Gdo generalista per veicolare l'agrifood italiano sarebbe un suicidio, la concorrenza estera e le piattaforme web ci farebbe neri in un battibaleno – commenta Maurizio Schiraldi, dg di Tatò Paride, protagonista della distribuzione pugliese – possiamo andare all'estero solo con le filiere dell'eccellenza, con i ristoranti che valorizzano il made in>. Storia che stanno scrivendo i Barilla Restaurant, i Roadhouse del gruppo Cremonini, i bistrot CrudoCotto di Rovagnati (pronti allo sbarco oltreconfine), i locali in franchising Giovanni Rana o quelli Espressamente Illy o, nelle super-nicchie, i corner dei pregiati tuberi di Savini Tartufi. «Si parla però di business completamente diversi (per modello organizzativo, target, logiche, competitor) da quello di produrre e trasformare alimenti – è l’alert che lancia alle imprese dell’agrifood Ludovica Leone, direttore Global Mba Food&Wine di Bbs – e la qualità del prodotto non significa automaticamente qualità del servizio. Occorre invece mantenere coerenza con l'identità del brand, mentre la percezione spesso fast-food di questi locali rende difficile il posizionamento in fascia alta, fondamentale invece per catturare il turista e il consumatore estero». Anche in questo caso a fare la differenza è l’apertura al cambiamento e a nuove competenze da parte dell’azienda alimentare.
L’Osservatorio 2018 sul change management che Assochange pubblicherà a giorni, in collaborazione con il Politecnico di Milano, analizzando annualmente un campione di manager ed executive di 125 aziende italiane con un forte orientamento al cambiamento conferma la svolta 4.0 delle strategie: «Le aziende stanno ri-orientando il proprio focus non più sulla ristrutturazione dei costi, tema prioritario negli anni della crisi, ma su progetti di cambiamento mirati alle nuove esigenze dei clienti sempre più social e digitali. L'innovazione tecnologica significa oggi quindi soprattutto capacità di trasferire il cambiamento nel modo quotidiano di lavorare delle persone – conclude il presidente Merando – di abbinare l’humanization alla digitalization, con tempi sempre più stretti, perché la durata di un progetto di change management oggi si è ridotta a meno di 12 mesi. E manca ancora tutta la parte di misurazione del cambiamento, fondamentale anche se difficile, trattandosi di soft skills, per quantificare la capacità di arrivare con efficacia ed efficienza al risultato prefissato. È l’engagement delle risorse umane il fattore chiave per la trasformazione 4.0 e lean di una impresa, anche in epoca di big data».
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