Politica economica, produttività da programmare
di Andrea Goldstein
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La capacità di immaginare un destino collettivo, che combini analisi rigorosa delle condizioni generali e ampia condivisione delle ambizioni, è propedeutica al disegno e alla realizzazione di misure di politica economica coerenti e di lungo respiro. Considerata la “Macronmania” imperante, come dimenticare che l’autore del programma elettorale del nuovo Presidente è Jean Pisany-Ferry, ex-direttore di France Stratégie?
Un organismo indipendente, ancorché legato a Matignon, la cui ambizione è elaborare una visione a medio e lungo termine attraverso l'expertise, la riflessione e il dialogo. Oltre a disporre del proprio staff di esperti, France Stratégie si appoggia sul lavoro di altre istituzioni pubbliche. In Germania l'equivalente è il Sachverständigenrat für Wirtschaft, il celebre gruppo dei cinque saggi creato per legge nel 1963 per consigliare la Cancelleria sui principali orientamenti di politica economica.
Cinque saggi che sono a capo di altrettanti istituti di ricerca, in gran parte finanziati da governo federale e Lander. L'antesignano di tutti, l'olandese Bureau for Economic Policy Analysis fondato da Jan Tinbergen nel 1945, gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di politiche che consentono di realizzare le riforme strutturali senza intaccare il contratto sociale egualitario.
Fuori dall'Europa va citata la Productivity Commission australiana. Anche l'Italia, proprio cinquant'anni fa, cercò di dotarsi di questo assetto, con l'istituzione dell'Istituto di studi per la programmazione economica (Ispe) per appoggiare il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe). A dir la verità, nel 1967 era già terminata l'era d'oro della programmazione economica in Italia, il cui apogeo fu probabilmente la Nota aggiuntiva di Ugo la Malfa dal 1962. È difficile pensare che quell'esperienza si sarebbe realizzata senza la riflessione e l'analisi di una generazione di intellettuali (molti, ma certo non tutti, economisti) che credevano nella programmazione come strumento d'indirizzo per la politica economica. Sfortunatamente la nascita di Cipe e Ispe coincise con l'inizio di una lunga e pressoché ininterrotta stagione di crisi politiche in cui si è smarrita questa centralità. Col risultato che nel migliore dei casi è stato difficile lottare contro la stagnazione, e spesso la scarsa qualità della programmazione ha aggravato la situazione.
Tra le poche voci che nel corso degli anni dimostravano preoccupazione per questa deriva, spicca quella di Beniamino Andreatta, che in una sessione parlamentare nel dicembre 1979 constatava come «l'ISPE non [avesse] raggiunto un vero e proprio assetto funzionale come istituto di ricerca e che la Segreteria generale della programmazione [avesse] dovuto fare a meno o quasi del suo apporto tecnico anche quando ha cominciato a chiederne l'effettuazione con precise direttive tecniche».
L'allora ministro del Bilancio proponeva di dotare l'amministrazione pubblica di una struttura agile ad alta professionalità simile al Council of Economic Advisors americano. Un tentativo in questo senso venne fatto quasi due decenni dopo con il consiglio degli esperti presso la Presidenza del Consiglio, ma senza mai arrivare a uno staff «di 40 esperti provenienti dalle Università e da Enti pubblici, od in base a distacco o con contratti al massimo triennali» di cui aveva parlato Andreatta. Dal 2010 non c'è nemmeno l'Isae, l'Istituto di studi e analisi economica che dell'Ispe (e del suo gemello, l'Istituto per lo studio della congiuntura) è stato effimero erede. L'Isae venne abolito dalla Finanziaria 2011, ufficialmente per consentire un risparmio di spesa, peraltro irrilevante dal punto di vista degli equilibri di bilancio. La motivazione era fuorviante: l'Isae non serviva politicamente, non perché le sue analisi dessero particolare fastidio, ma perché non si vedeva proprio la necessità di una programmazione moderna..
Quelle che negli anni 60 Pasquale Saraceno identificava come le priorità della politica economica – utilizzare completamente l'offerta di manodopera, ridurre il divario tra le regioni meridionali e quelle settentrionali ed equilibrare la bilancia dei pagamenti – e cui la programmazione doveva fornire gli strumenti scientifici, rimangono ad oggi le grandi sfide per l'Italia. Resta un vuoto per discutere dell'avvenire dell'economia italiana con risorse, politiche non meno che finanziarie, adeguate. Non si tratta di tornare alla programmazione cogente, per obiettivi, che ormai neanche la Cina fa finta di prendere sul serio, quanto di indicare un preciso piano di riforme di struttura. Cosa ben diversa dalle laundry lists d'interventi che mancano di coerenza e restano il più delle volte allo stadio dei desideri.
L'opportunità la fornisce il Consiglio europeo del 20 settembre 2016, che ha raccomandato agli Stati membri della zona Euro di dotarsi di consigli nazionali della produttività, indipendenti, con la duplice mission di analizzare le politiche pubbliche e rafforzare i meccanismi di dialogo. Sarebbe magari una maniera degna per dare una missione al Cnel dopo che il 4 dicembre 2016 gli elettori, forse inconsapevolmente, lo hanno salvato dalla rottamazione cui era destinato nella sua attuale letargica forma.
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