Polonia e Ucraina, separate alla nascita in economia
Il piano di liberalizzazione radicale del 1989 è stato alla base di una crescita sostenibile. L’ancoraggio all’Unione Europea e alla Nato, e il rapporto speciale con gli Stati Uniti, sono fattori di stabilità
di Attilio Geroni
4' di lettura
Partire da uno stesso livello di reddito non è sufficiente per garantire un arrivo sul filo di lana. La storia degli ultimi trent’anni di Polonia e Ucraina, separate alla nascita con un simile livello di reddito pro capite,ce lo insegna. Neanche un governo populista e ultranazionalista come quello di Varsavia, al potere dal 2015 e riconfermato con un successo netto alle elezioni di ottobre, ha potuto e voluto compromettere un miracolo economico che dura ininterrottamente dal 1992.
I meccanismi del libero mercato sono stati finora impermeabili all’involuzione politica della Polonia, che ha invece minato alla base alcuni pilastri dello stato di diritto, come l’indipendenza della magistratura e dei media. Quest’anno il Pil polacco dovrebbe aumentare di un solido e rispettabile 4%, mentre l’anno scorso è tornato a crescere il flusso degli investimenti diretti esteri (Ide), a 11,5 miliardi di dollari rispetto ai 9 del 2017. La Polonia ha continuato a essere un magnete per gli Ide e lo stock complessivo, a 232 miliardi di dollari, rappresenta ormai il 44% del Prodotto interno lordo.
Partire bene è comunque importante. Varsavia nel 1989, poco dopo il trionfo di Solidarnosc alle prime elezioni semilibere, decise letteralmente di gettarsi tra le braccia dell’economia di mercato. Fu il ministro delle Finanze, l’economista Leszek Balcerowicz, a varare un piano di trasformazione senza precedenti. Liberalizzazione dei prezzi, parziale convertibilità della moneta nazionale, lo zloty, chiusura delle imprese inefficienti e dei negozi, prima ondata di privatizzazioni.
L’effetto immediato e a breve fu devastante: la disoccupazione che prima non esisteva, almeno nelle statistiche socialiste, salì in poco tempo a un milione di persone; la paralisi anche delle più piccole ed elementari attività economiche fu completa. Oggi quel piano, che pochi anni dopo avrebbe riportato la crescita e contribuito a creare ricchezza facendo della Polonia una delle grandi storie economiche di successo dell’ultimo quarto di secolo, sarebbe stato classificato come esperimento di macelleria sociale a cuore aperto.
La vera distorsione si era però consumata negli ultimi anni del regime comunista. La Polonia era un Paese talmente indebitato e inefficiente che, divorato dall’iperinflazione, da tempo non era in grado di fornire ai propri cittadini molti beni di prima necessità. Perfino la carta igienica era sparita dagli scaffali diventando oggetto di scambi al mercato nero.
Altri Paesi postcomunisti scelsero un approccio graduale, e nel tempo hanno fatto molta più fatica a mantenere un tasso di crescita sostenibile. La cosiddetta terapia d’urto, sostengono molti analisti, ha dato un carattere di irreversibilità all’economia di mercato e una invidiabile resilienza alla Polonia unica, tra i membri dell’Unione europea, a non entrare in recessione durante la grande crisi del 2008-2009.
Nessun governo negli ultimi trent’anni, compreso quello in carica, si è mai sognato di compromettere il funzionamento di un meccanismo così ben oliato. Ma la differenza con l’Ucraina non l’ha fatta soltanto l’economia. La Polonia si è rafforzata anche grazie al triplice ancoraggio geopolitico fatto proprio, in maniera trasversale, dall’intera classe dirigente postcomunista. L’ingresso nella Nato nel 1999; l’adesione all’Unione europea nel 2004 e rapporto privilegiato con la Germania anche come parte integrante della catena di valore delle grandi imprese tedesche; e infine una relazione speciale con gli Stati Uniti.
Washington ha sempre avuto a cuore le sorti della Polonia, fin dai tempi di Ronald Reagan e di George Bush. Quest’ultimo fu infatti il grande sponsor del taglio del debito estero di Varsavia nel 1991 da parte del Club di Parigi dei Paesi creditori: prima uno sconto del 50% su 33 miliardi di dollari, poi del 70 per cento. Una boccata d’ossigeno vitale.
Al resto hanno contribuito i fondi Ue, dei quali la Polonia in questi ultimi anni è stata il maggior beneficiario. Soldi spesi bene, con progettualità e rapidità anche da parte delle amministrazioni locali: le infrastrutture dei trasporti sono tra le più moderne d’Europa, a cominciare dalla rete autostradale.
I fondi Ue, però, spiegano soltanto una parte della storia, anche se importante: «La resilienza dell’economia polacca - dice l’economista Marcin Piatkowski, ex Banca mondiale a Varsavia e ora a Pechino per la stessa istituzione, autore del libro “Europe’s Growth Champion. Insights from the Economic Rise of Poland” - è dovuta a molti fattori. I fondi europei, certo, ma non solo, visto che rappresentano non più del 10% degli investimenti complessivi. Altri elementi chiave sono state le politiche di bilancio e monetarie, che hanno sostenuto la crescita, così come l’indebolimento dello zloty, che ha rafforzato la competitività delle esportazioni polacche in un periodo di crisi».
L’economista aggiunge che negli anni la produttività del lavoro è cresciuta più rapidamente dei salari, «una sorta di modello tedesco». L’effetto combinato e sincrono di entrambe le fonti che producono guadagni di competitività ha permesso di arrivare a una crescita sostenibile nel medio-lungo periodo e a un mercato del lavoro dove la disoccupazione è fisiologica e dove il problema più urgente è stato negli ultimi anni il reperimento di manodopera qualificata. Problema risolto con l’aiuto di due milioni di ucraini, per i quali la Polonia è diventata una sorta di terra promessa.
loading...