Potrà sembrare strano, ma collaborare è molto più che cooperare
Tutti dovremmo provare a usare il libero arbitrio per creare un ambiente dove l’agire sia più semplice e fluido e il clima relazionale appagante
di Nicola Giunta *
3' di lettura
Di questi tempi si parla molto di gentilezza, rispetto, ascolto, inclusione. Bene, è un esplicito segnale che il modello culturale degli ultimi decenni è asfittico, forse al capolinea. Più si parla e si promuove la centralità di questo sistema di virtù e più colpisce la distanza tra il predicato e l’agito. Ma questo non deve scoraggiare, piuttosto raffinare lo spirito di osservazione e autocritica di tutti noi. I “portatori sani” del benessere sociale non sono tantissimi, sono invece davvero numerosi gli interpreti. Quelli che molto dicono e molto sanno, ma esprimono una certa goffaggine nel gestire i trade off tipici di una quotidianità complessa come la nostra. Poi ci sono i dogmatici, da una parte e dall’altra, dannosi perché alimentano la persistenza di una certa “disumana” propensione a non comprendere il bene comune nel paradigma.
In questo contesto è interessante volare alto e guardare talvolta più da vicino con una picchiata un aspetto di questo molto dire e molto sapere. Ad esempio oggi nel business si afferma con decisione la grande differenza tra il collaborare e il cooperare, ovviamente conferendo a quest’ultimo il premio del valore supremo in termini di intelligenza organizzativa. Non posso che concordare, nella complessità la convergenza di sforzi volontari di persone con scopi diversi per ottenere un risultato comune è una espressione elevata di intelligenza collettiva.
La collaborazione invece può essere avulsa da un obiettivo, quasi come se fosse importante, in alcuni casi decisiva ma non indispensabile, perché altrimenti sarebbe regolata oppure rientrerebbe nei canoni della cooperazione. Questo tema mi appassiona, proprio perché operando sul fronte del Complexity Management ti accorgi che il punto di caduta è proprio laddove l’individuo esercita il libero arbitrio, in quella sfera di influenza che rappresenta al contempo l’espressione della libertà che esercitiamo e della responsabilità (morale) che esprimiamo sugli accadimenti.
Mentre la cooperazione beneficia di uno scopo, che c’è, è descrivibile, è sottoscrivibile, è lì a disposizione dei singoli per aderirvi e farlo proprio insieme agli altri, contempla un pezzo di interesse per ciascuno e quindi aderirvi conviene, anzi è un obbligo; nella collaborazione manca questo polo magnetico, e quindi il gioco cambia. Certo a volte c’è una mutualità basata su uno scambio, ma in realtà la collaborazione vive di una dipendenza univoca. Ho bisogno che tu collabori affinché io possa avere il mio vantaggio. E diventa assai più complessa la ricerca degli interessi in gioco da offrire a chi questa collaborazione potrebbe o dovrebbe darla.
L’esempio più tipico è quando io ho bisogno di un supporto di un collega o funzione aziendale per dare una risposta ad un cliente o fare al meglio un task: il punto di caduta è nell’arbitrio, che si esprimerà all’interno di un range compreso tra “ti spiego (allo sfinimento, e a tutti i costi) perché non si può fare (o perché non posso farlo)” a “proviamo (allo sfinimento, e a tutti i costi) a capire come si può fare (o come posso farlo)”.
Nella sofisticata scala di sfumature tra un estremo e l’altro sono l’atteggiamento e il complesso sistema di valori che muovono le relazioni a fare la differenza. Il problema è che in questo dire e fare su gentilezza, inclusione e rispetto, la managerialità deve fare un salto importante per vedere l’essenziale, creare contesti collaborativi prima ancora che contesti cooperativi. E le persone, che giustamente rivendicano benessere organizzativo e una leadership gentile? Credo che le persone, noi tutti, dovremmo provare (allo sfinimento e a ogni costo) a usare il nostro libero arbitrio per creare un ambiente dove l’agire sia più semplice e fluido, e il clima relazionale appagante.
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