Premierato, Marini: stabilità e governabilità senza toccare poteri Presidente
«Abbiamo scelto di fare un’operazione chirurgica mantenendo la forma di democrazia parlamentare e gli attuali equilibri istituzionali». Tornare al voto se il premier cade come nei Comuni? «A livello nazionale il meccanismo sarebbe troppo rigido e sminuirebbe sia il ruolo del Parlamento sia quello del Quirinale. Una certa flessibilità è necessaria»
di Emilia Patta
6' di lettura
«Il nostro intento è quello di garantire stabilità e governabilità preservando per quanto possibile la nostra tradizione costituzionale e gli equilibri istituzionali esistenti. Per questo non sono stati toccati i poteri del Presidente della Repubblica, come per altro ci hanno chiesto i partiti di opposizione durante le consultazioni che la premier Giorgia Meloni ha tenuto prima dell’estate scorsa». A difendere il Ddl Casellati che introduce nel nostro ordinamento l’elezione diretta del Presidente del Consiglio è il “papà” della riforma, il costituzionalista e consulente della premier Francesco Saverio Marini, che ha partecipato alle consultazioni con tutti i partiti e ha steso materialmente il testo approvato in Consiglio dei ministri. In questa intervista risponde alle critiche pervenute da costituzionalisti e anche da esponenti della stessa maggioranza.
Come tutte le riforme costituzionali anche questa parte già avvolta da critiche e scetticismo. Ma l’obiettivo di garantire stabilità agli esecutivi dopo 68 governi in 72 anni appare condivisibile. Ci può spiegare la ratio che sta dietro a questa riforma, che pur toccando solo 4 articoli della Costituzione introduce con l’elezione diretta del capo del governo una rivoluzione nel nostro ordinamento?
Le critiche sulle riforme costituzionali, come giustamente rilevava, sono fisiologiche perché si tratta di meccanismi complessi e con una forte connotazione politica. Ma da parte di tutte le forze politiche e anche nella società civile è emersa la piena consapevolezza della grave patologia della nostra forma di governo in termini di instabilità. I numeri che ricordava sono un unicum a livello mondiale. Ed è proprio questa esigenza la ratio ispiratrice della riforma: garantire stabilità e governabilità, rafforzando la democrazia. Il tutto cercando di modificare solo l’essenziale, in modo da preservare, per quanto possibile, la nostra tradizione costituzionale e le norme costituzionali vigenti.
Paradossalmente la principale critica che si muove, anche da costituzionalisti di area democratica, è che il premier pur eletto direttamente rischia di essere un’anatra zoppa. Perché avete ritenuto di non dare al premier i poteri che hanno molti suoi colleghi europei pur non eletti direttamente, a cominciare da quello di determinare lo scioglimento delle Camere?
Dice bene paradossalmente, perché uno dei motivi per cui non è stata presa in considerazione questa modifica risiede proprio nelle indicazioni delle forze di opposizione, a partire dal Partito democratico, che ha sottolineato l’esigenza di evitare l’uomo solo al comando e non toccare i poteri del Presidente della Repubblica. Peraltro il potere di designazione dei ministri già spetta al Presidente del Consiglio e mi sembra del tutto opportuno che il Capo dello Stato, nella sua funzione di garanzia, possa effettuare un controllo sui nominativi proposti. Aggiungo che il problema della nostra forma di governo, a mio avviso, non risiede nel rapporto tra Presidente del Consiglio e ministri, ma appunto nella grave instabilità dei Governi. E la proposta si concentra su questo aspetto.
Molti, tra cui anche il presidente del Senato Ignazio La Russa e il suo predecessore Marcello Pera, ritengono che la soluzione più razionale in caso di elezione diretta del capo del governo sia il simul stabunt simul cadent, ossia in caso di cessazione dalla carica si torna al voto. La stessa Meloni ha detto che questa era la sua prima scelta. Come mai si è trovata la soluzione di consentire sia pure una sola volta nella legislatura l’elezione da parte del Parlamento di un sostituto?
Perché nel dibattito è emersa la preoccupazione di non indebolire da un punto di vista istituzionale il Parlamento rispetto al Governo. Inoltre, la regola del simul simul sconta qualche rigidità, in quanto conduce ad elezioni anche in tutte le ipotesi in cui il cambio del Presidente del Consiglio non dipenda da una crisi politica interna alla maggioranza, ma da fattori del tutto accidentali, come l’impedimento, la morte o la decadenza del premier. Si è così elaborata una soluzione più flessibile, che limiti i cambi di governo e di maggioranza ma lasci un minimo di manovra alle istituzioni politiche,
Non c’è il rischio che il secondo premier abbia più potere del primo, eletto direttamente, in quanto inamovibile pena lo scioglimento delle Camere? È come consegnargli quel potere di scioglimento che non si è voluto attribuire all’eletto… Per altro la cosiddetta norma anti-ribaltone è tale solo perché resta il vincolo di continuità programmatica ma la maggioranza, almeno sulla carta, può cambiare.
Quanto al primo aspetto, è così, ma la scelta presenta due vantaggi: il primo è evidente ed è quello di evitare troppi cambi di governo, che è appunto l’obiettivo principale che si intende conseguire con la riforma; il secondo è, paradossalmente, proprio quello di rafforzare il Presidente eletto direttamente, perché i parlamentari attraverso il cambio di governo sanno che con il premier subentrante subiranno appunto la regola del simul simul, e questo induce a cautela. Quanto al cambio di maggioranza, faccio presente che la democrazia e prima ancora la logica impediscono di vietare a una forza di opposizione di convincersi della bontà del programma e dei provvedimenti proposti dalla maggioranza e votarli. Ma i limiti previsti nella proposta per nominare un nuovo Governo renderanno impossibili, politicamente prima ancora che giuridicamente, i cosiddetti ribaltoni. La forza di opposizione che volesse abbracciare il programma degli avversari dovrebbe renderne conto ai suoi elettori.
Una novità di grande rilievo in direzione della governabilità è anche la fissazione in Costituzione del principio di una legge elettorale maggioritaria che garantisca con un premio nazionale alla coalizione vincitrice e al suo premier il 55% dei seggi in Parlamento. Ma con un turno unico il premio rischia di essere abnorme e sarebbe bocciato dalla Consulta. Non sarebbe meglio a questo punto costituzionalizzare pure il ballottaggio?
Anche qui vedo una contraddizione nelle critiche: da un lato si contesta che si è troppo irrigidito il meccanismo elettorale indicando un numero percentuale nella Costituzione, dall’altro si chiede di irrigidirlo ulteriormente con un numero fisso della soglia minima. Soglia minima che dipenderà anche dal meccanismo che si sceglierà con la legge elettorale. Insomma, anche in tal caso si è scelta una soluzione minimale: si è fissata con il 55% la soglia più bassa compatibile con la stabilità, alla luce dei nuovi numeri dei parlamentari. Contestualmente si è lasciato un significativo potere di scelta e di decisione al legislatore ordinario nel meccanismo elettorale, costituzionalizzando solo l’indispensabile.
In tutti i Paesi democratici in cui c’è l’elezione diretta di una carica apicale (che altrove è il presidente della Repubblica) è fissato il limite dei due mandati che invece nella riforma varata dal Cdm non c’è. Il tema è stato affrontato in sede di discussione preliminare?
Certamente, ed è stato ritenuto opportuno non inserirlo perché in tutti i Paesi democratici in cui c’è il rapporto di fiducia e la possibilità di sostituzione del Presidente del Consiglio in corso di legislatura, non è previsto alcun limite ai mandati del Presidente del Consiglio. Del resto, con la sfiducia e il possibile reincarico del premier eletto ci sarebbe altrimenti il rischio di consumare i mandati disponibili all’interno della stessa legislatura o, all’opposto, di introdurre un facile meccanismo elusivo, nominando un primo ministro pochi mesi prima delle elezioni. Le aggiungo, a titolo personale, che ho una forte pregiudiziale negativa su pressoché tutti i limiti ai mandati elettorali: ovviamente ne comprendo la ratio, ma se c’è qualcuno bravo e che gode del consenso del suo elettorato penso che l’interesse pubblico e il funzionamento della responsabilità politica dovrebbero andare nel senso di consentirgli di candidarsi. Insomma, credo che si debba avere più fiducia nel corpo elettorale.
Secondo lei se il Pd facesse una controproposta organica di premierato forte ma non elettivo, con i poteri di cui si è detto prima, il destino della riforma potrebbe cambiare evitando il referendum?
Premetto che da cittadino trovo positivo che il popolo possa esprimersi su una riforma significativa della nostra forma di governo. Detto ciò, il premierato forte passa da una forte legittimazione democratica che si può ottenere solo attraverso un’elezione diretta. Del resto, anche le altre forme di governo considerate all’inizio della discussione da parte della maggioranza di governo prevedevano tutte un’elezione diretta, del Capo dello Stato o del Presidente del Consiglio, proprio perché si avverte oltre all’esigenza di governabilità, anche quella di un rafforzamento della democrazia e della legittimazione delle istituzioni democratiche, sempre più minata dall’astensionismo alle elezioni.
Dica la verità, chi ha voluto inserire nella riforma la norma che abolisce la nomina presidenziale dei senatori a vita? Sembra un po’ una ripicca...
Non vedo il senso della ripicca. la Presidente Meloni si è più volte espressa in questo senso in passato e la proposta mira sempre all’obiettivo di rafforzare la democrazia, limitando la componente non elettiva. Del resto, non si può negare che si tratti di un residuo del passato, quando i Senatori erano nominati dal Re, e con i numeri dimezzati dei parlamentari quella componente non elettiva rischia oggettivamente di diventare determinante per la formazione delle maggioranze e dei governi e questo in un’ottica democratica é del tutto negativo.
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