Problemi e speranze, l’intelligenza artificiale interpreta il mondo
Rita Cucchiara. Tra le massime esperte italiane del campo, alla Franceschetta di Bottura, spiega contraddizioni, paradossi e successi di un settore in Italia in mano alle donne
di Paolo Bricco
6' di lettura
«Una nuova frontiera cambierà l’intelligenza artificiale e il mondo. È l’unlearning. Insegnare alle macchine a disimparare, quando i loro codici generativi sono basati su presupposti logici falsi o su dati non corretti. Nessuna forma di intelligenza artificiale riesce a farlo. Il cervello umano non ha meccanismi che modificano, disarticolano e correggono le conoscenze sbagliate: l’intelligenza artificiale è a nostra immagine e somiglianza. È un tema etico e morale, scientifico e tecnologico: l’unlearning potrebbe ridurre una parte dei pericoli reali e delle paure immaginarie che l’intelligenza artificiale alimenta nella nostra società. Io e il mio gruppo di ricerca ci stiamo lavorando».
Rita Cucchiara è la principale specialista italiana di intelligenza artificiale. Il Parlamento europeo ha approvato l’AI Act, la regolamentazione comunitaria sul suo sviluppo e le sue limitazioni. Siamo alla Franceschetta, il locale che Massimo Bottura ha aperto a Modena, come contraltare meno sperimentale e più popolare nei prezzi e nella tradizionalità dei piatti della Francescana, uno dei maggiori ristoranti al mondo: «Massimo è un amico. Io e i suoi fratelli siamo stati adolescenti insieme. Qui ci conosciamo tutti. La provincia è questo». Di martedì sera, è strapieno. «Sono comunque riuscita a trovare un posto», dice quando i camerieri, con gentilezza non affettata, ci fanno accomodare sui trespoli rimasti ancora liberi. E, va detto, per nulla scomodi, anzi con una seduta bella ampia di fianchi, secondo la consuetudine emiliano-romagnola del mangiare come buon vivere e della rotondità dei corpi come testimonianza di una attitudine all’esistenza che, qui, non è mai penitenziale.
Rita – figlia di Norma (insegnante di educazione fisica) e di Vittorio (funzionario alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna) – ha frequentato il liceo classico a Modena e si è laureata in ingegneria elettronica nel 1989 a Bologna, dove ha ottenuto il dottorato di ricerca in elettronica e in informatica: la sua tesi di laurea e il lavoro di dottorato hanno riguardato le architetture di calcolo parallele per le rielaborazioni delle immagini: «Operavo con le prime reti neurali che avevano l’equivalente attuale di cento parametri. Oggi le reti hanno corrispondenze di connessioni pari a centosettantacinque miliardi di parametri».
I camerieri della Franceschetta ci portano subito un ravanello con maionese all’aglio nero e un asparago affumicato con pecorino di fossa locale. Da bere ci consigliano un calice di Negretto, un rosso strutturato ricavato da un vitigno autoctono dei colli bolognesi. Rita ha la concretezza e il divertimento che caratterizza questa parte del Paese. Anche per questa ragione, quando parli con lei, un tema gigantesco e dai risvolti faustiani come l’intelligenza artificiale assume un tono realistico e non privo di ironia: «Ma sai perché, alla fine, siamo così tante donne a occuparci di intelligenza artificiale in Italia? In senso relativo, naturalmente. Siamo sempre poche nelle facoltà di ingegneria, ma in proporzione siamo molte di più rispetto alle altre specializzazioni. Questo è accaduto perché tutta la classe dirigente universitaria italiana, composta da maschi sopra i cinquant’anni, negli anni 90 teneva per sé gli argomenti più sexy dal punto di vista tecnoindustriale e più appaganti in termini di consulenze con le grandi e le medie imprese: le telecomunicazioni, l’informatica classica, la meccatronica. E lasciava a noi quello che, allora, era la prima stagione dell’intelligenza artificiale. Erano convinti tutti che, alla fine, l’intelligenza artificiale non avrebbe mai funzionato veramente. E, in più, allora, non c’era un granché da guadagnare con le aziende», racconta con un divertimento autentico e una soddisfazione maliziosa che però non sfociano nel sarcasmo.
La serata è mite e non afosa. Come antipasto condividiamo un piatto di salumi composto da crudo (non di Parma, ma di Modena, con un invecchiamento superiore ai 24 mesi), una strepitosa pancetta di Marano sul Panaro (di 36 mesi), un salame di Mora Romagnola (ottenuto da animali lasciati allo stato brado, liberi sulle colline intorno a Rimini). Quindi, arriva l’Emilia Burger, uno dei tanti piatti inventati da Bottura proposti anche alla Franceschetta. Si tratta di deliziosi mini panini che, al loro interno, sono imbottiti con carne di manzo, parmigiano reggiano e cotechino, più maionese, aceto balsamico e salsa verde tradizionale. Il marito di Rita, Stefano, fa l’imprenditore nell’edilizia. Hanno due figli: Federico, 27 anni, che ha fondato una startup sulla intelligenza artificiale a Zurigo e intanto sta facendo un dottorato di ricerca a Trento, e Vittoria (23 anni), che sta frequentando architettura all’università della svizzera italiana a Mendrisio, dove all’accademia di Mario Botta coabitano talenti emergenti e archistar conclamate, lavoro artigianale e tecnologia.
Come primo Rita prende un tubetto alle canocchie: una pasta risottata fatta cuocere nel brodo delle canocchie stesse. Io, invece, ordino un piatto di tortellini in crema di parmigiano prodotti dal Tortellante, il laboratorio artigianale in cui lavorano ragazzi e ragazze che hanno una percezione e una esperienza del mondo collocate nello spettro autistico: un classico della cucina di Modena che è anche un classico della Modena come comunità di persone che fanno cose molto particolari, prima di tutto occuparsi degli altri e amarli.
Rita, quando parla dell’associazione del Tortellante e di chi l’ha costituita e animata, esprime affetto, ammirazione, empatia. Italia, Emilia-Romagna, Modena. Nella vastità del mondo, ci sono tante geografie del cuore e del sapere. E tutto – la cultura materiale del cibo, l’accudimento di chi vive in condizioni speciali e le frontiere tecnologiche – ha questo sottostante di posti e di relazioni, di emotività e di intelligenze, di storie personali e di correnti della storia. Nella geografia della conoscenza, nel mondo occidentale oggi i luoghi a maggiore concentrazione di sapere nell’intelligenza artificiale sono Stanford, il Mit di Boston, Oxford, l’Eth di Zurigo, il Max Planck tedesco nelle sue sedi di Tubinga e di Stoccarda. E, espressione della micro-dimensione che ha in generale l’Italia nelle deep scienze, c’è anche Modena, dove appunto, al dipartimento di ingegneria Enzo Ferrari, insegna Cucchiara. Racconta Rita: «L’intelligenza artificiale è un campo molto vasto e articolato. Il prima e il dopo è coinciso con l’11 Settembre. La videosorveglianza ha aperto nuovi capitoli sulla tecnologia, sulla sicurezza, sulla privacy, sul rapporto fra il bene comune e le garanzie individuali. Nel deep learning l’Europa è strutturalmente indietro. Gli Stati Uniti hanno i grandi gruppi privati come Apple, Ibm, Google, Facebook-Meta, Tesla. In Cina le politiche industriali e di innovazione sono pianificate e dirette dal Partito Comunista. L’Europa è specializzata nella teoria dell’intelligenza artificiale e nel suo impiego nella manifattura. Noi qui a Modena lavoriamo molto sulla sua applicazione nelle ceramiche e nelle piastrelle». Mentre lo dice, mi viene in mente il titolo del saggio del 1966 di un giovane Romano Prodi: Modello di sviluppo di un settore in rapida crescita: l’industria della ceramica per l’edilizia. Perché, nel complesso romanzo dell’economia italiana, esiste una continuità fra il passato, il presente e il futuro. Nel nostro Paese l’intelligenza artificiale è stata a lungo divisa e parcellizzata. Ora ha trovato una maggiore coesione grazie al primo laboratorio nazionale («una esperienza di ricerca diffusa, con 55 università e mille ricercatori», dice Cucchiara, che l’ha fondato nel 2018), grazie al budget da 116 milioni di euro del Pnrr e grazie ai 150 PhD finanziati dal governo Draghi: «Un sistema ben integrato con il supercomputer Leonardo Hpc di Bologna e, anche, con il supercomputer Da Vinci di Genova e con la rete dei Leonardo Labs che appartengono al gruppo industriale guidato da Roberto Cingolani». Come dolce, Rita sceglie una sfogliatina al limone, capperi e caffè. Io, invece, un altro grande classico emiliano-romagnolo: la zuppa inglese. L’intelligenza artificiale è oggi una delle chiavi di interpretazione del mondo: «La svolta in Cina sono state le Olimpiadi di Pechino del 2008, quando si sono concentrate risorse finanziarie e tecnologiche sulla biometria, sui big data e sulle infrastrutture. In quel momento tutti i grandi gruppi dell’high tech occidentale hanno compiuto investimenti e apportato know-how ben assorbito dal sistema cinese, che a sua volta ha iniziato un percorso autonomo». L’intelligenza artificiale è uno dei codici genetici della modernità: è piena di chiarezza e di ambiguità. E ha, al suo interno, la mutazione del reale degli ultimi dieci anni. Racconta Rita, mentre con i caffè vengono portati della torta di pane con cioccolato e amaretti e del croccante di mandorle con pepe e paprika: «Fino a dieci anni fa è esistito un ottimismo positivista della globalizzazione. Molte cose venivano fatte in open source. Gli scienziati cinesi hanno preso tutti il PhD nelle università americane. Con la pandemia la Cina ha chiuso le frontiere e ha ridotto la condivisione delle informazioni. Oggi la geopolitica dell’intelligenza artificiale è contradditoria e paradossale. La Cina resta intersecata e, insieme, divisa dagli Stati Uniti. Ma è tutta l’intelligenza artificiale, nelle sue potenzialità ancora ignote, a incutere timori e a affascinare. Pone grandi problemi, ma alimenta anche grandi speranze».
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