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Prosciutto di Parma, vendite e produzione in calo. Ma non c’è il problema scorte

L’inflazione determina lo spostamento dei consumi verso prodotti più economici, ma non c’è eccesso di produzione e buone notizie arrivano dal fuori casa. Bene l’export, seppur penalizzato dalla peste suina

di Emiliano Sgambato

Produzione in lieve calo per il Prosciutto di Parma

2' di lettura

Nei primi nove mesi dell’anno gli italiani hanno comprato l’11% in meno di Prosciutto crudo di Parma, risparmiando il 6% in termini di euro spesi in negozi e supermercati: nonostante l’aumento del prezzo medio del 5% sia lontano dal livello dell’inflazione, è il segno che molte famiglie stanno spostando le scelte di acquisto verso prodotti meno cari.

«Purtroppo stiamo scontando e sconteremo questa situazione – conferma Paolo Tramelli, responsabile marketing del Consorzio del Prosciutto di Parma Dop –. Lo stiamo vedendo non solo in Italia ma anche in alcuni dei principali mercati europei. E lo confermano anche i dati che abbiamo sul preaffettato, dove i costi sono maggiori e c’è un ritorno al banco taglio».

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Ma la situazione è più complessa: «Il ciclo produttivo del prosciutto è di uno-due anni, veniamo quindi dal periodo Covid quando i magazzini erano rimasti pieni ed è già in quel momento che è cominciata la fase di calo produttivo che oggi emerge con meno prodotto disponibile. Quindi – spiega Tramelli – fortunatamente, meno vendite non significa avere rimanenze significative. In linea di massima quello che doveva essere venduto quest’anno è stato venduto e chiuderemo con circa il 2% di cosce lavorate in meno».

Una quota significativa se si considera che i 136 produttori del Consorzio nel 2021 hanno prodotto 8 milioni di prosciutti per un valore al consumo di 1,5 miliardi.

«Inoltre – continua Tramelli – non si può non considerare che i minori acquisti in Gdo vanno confrontati con un periodo record, sempre in relazione alla fase pandemica, quando la spesa fuori casa era più bassa, mentre ora la ristorazione è ripartita e per noi è un canale di sbocco importante».

Comunque non può non preoccupare la combinazione tra aumento dei costi e calo della domanda. Anche in prospettiva, dato che la crisi economica è tutt’altro che alle spalle e che la carne acquistata oggi a prezzi in crescita è la materia prima per i prosciutti che arriveranno sul mercato tra almeno un anno.
«Sicuramente, come in altri comparti, l’aumento dei costi ha raggiunto livelli preoccupanti. Oltre al caro energia, che è elevato soprattutto nelle fasi di stagionatura – dice Tramelli – abbiamo registrato anche un incremento del costo delle cosce che ora si attesta a 5,9 euro al chilo (circa 2 euro in più di due anni fa, ndr). La sfida è mantenere un prezzo congruo che permetta una marginalità senza andare a incidere troppo sui consumi. La sfida ora è questa, i prezzi non si possono abbassare».

Una valvola di sfogo arriva dall’export che copre oltre un terzo del business e negli ultimi anni ha dato risultati positivi (+13% nel 2021). Anche qui però c’è qualche nube all’orizzonte:«Quello interno è un mercato maturo, quindi l’export rimane un canale di crescita fondamentale – ragiona il responsabile marketing –. Purtroppo in Europa il contesto economico è simile al nostro e inoltre siamo penalizzati dalla peste suina, che seppur resta fortunatamente circoscritta ai cinghiali, ha fatto scattare blocchi su mercati importanti in Asia come Cina e Giappone. Inoltre la guerra penalizza il bacino russo. Contiamo però di poter continuare ad avere buoni risultati da Stati Uniti e Canada, dove stiamo concentrando i nostri sforzi».

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