ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùSBAGLIANDO SI IMPARA

Provarci e riprovarci, va bene ma fino a quando?

Il motto “abbiamo sempre fatto così!” o, ancora peggio “tutti sanno che si fa così” seduce e immobilizza (purtroppo) anche le menti più brillanti.

di Eva Campi *

(Getty Images via AFP)

4' di lettura

“Ora voglio sapere il peggio, ad ogni costo. Ogni ragione deve cedere al mio interesse. Mi sono inoltrato nel sangue fino a tal punto che se non dovessi spingermi oltre a guado il tornare indietro mi sarebbe tanto pericoloso quanto l’andare avanti”. (Macbeth, III, 4 di William Shakespeare). Il libro di Allen I. Teger “Too much invested to quit” - Ho investito troppo per lasciare - compie dieci anni. Tuttavia, le parole di Macbeth ci suggeriscono che il bias di intensificazione dell’impegno - escalation of commitment - è una tendenza psicologica antica e fortemente radicata nel processo decisorio della mente umana.

Quante volte nella vita professionale o in quella personale possiamo rimanere bloccati in una scelta estremamente costosa che continuiamo a mantenere, aumentando l’impegno e lo sforzo, pur di raggiungere l’obiettivo iniziale? L’escalation dell’impegno (o anche fallacia del costo irrecuperabile) si verifica quando ci comportiamo in modo completamente irrazionale e continuiamo a perseguire qualcosa che produce risultati sempre più negativi (monetari, psicologici, emotivi, ecc.) invece di cambiare rotta.

Loading...

Per qualsiasi motivo, spesso ci sentiamo come se avessimo superato un “punto di non ritorno” provocato dalle nostre decisioni, e quindi, “buttiamo soldi buoni, dopo soldi cattivi” nonostante nuove prove suggeriscano che il costo, per continuare la linea d’azione intrapresa, superi i benefici dell’abbandono dello stesso. Un detto simpatico che un mio vecchio professore inglese di scienze comportamentali mi diceva, era “in for a penny, in for a pound” – “mettici un centesimo, mettici una sterlina”. Suggerendo che se metti il primo centesimo in qualcosa, puoi anche ritrovarti a metterci una sterlina se ti lasci prendere da quello che io chiamo ”accanimento realizzativo”.

La verità è che potremmo aver preso la fatidica decisione originale per le migliori ragioni allora disponibili, ma se nuove prove suggeriscono che continuare con la linea intrapresa “non è smart”, allora perché lo facciamo? Sociologi ed economisti comportamentali hanno trovato che, tra le varie cause di questa modalità decisionale, “l’autogiustificazione” risulta essere la più frequente. Già la ricerca di Huning e Thomson del 2011 suggeriva che le persone con ruoli di leadership tendono a fidarsi di più delle informazioni che sono allineate al loro comportamento passato e/o al comportamento agito da altri leader precedenti, perché lo vivono come coerente e sequenziale.

Perché? Perché il motto “abbiamo sempre fatto così!” o, ancora peggio “tutti sanno che si fa così” seduce e immobilizza anche le menti più brillanti. Abbiamo già imparato quanto i bias inconsapevoli guidino le nostre scelte e spesso abbiamo affermato che le migliori intenzioni ci rendono ciechi di fronte a queste distorsioni cognitive. Niente è più vero di fronte all’escalation of commitment. L’impegno del riprovarci, di non mollare, l’insistenza, il perseverare sono caratteristiche di persone volitive, motivate, energiche, che si spendono nel perseguire i propri obiettivi, soprattutto in contesti in cui la performance parla di te; la tua idea realizzata è il passaporto per il successo.

Come rinunciare a qualcosa in cui abbiamo creduto, sperato, investito così ardentemente? Capita così che, spesso, il “punto di non ritorno” sia un’illusione auto-creata che ci dice che è meno doloroso continuare come stiamo facendo, piuttosto che apportare un cambiamento, o rinunciare e ammettere che la decisione che abbiamo preso sia stata fallace. Potremmo pensare che la responsabilità del bias dell’escalation dell’impegno dipenda dall’incompletezza dei dati a disposizione. Ma questa spiegazione è solo parziale.

Prendiamo ad esempio la capacità negoziale. La negoziazione e il decision making sono cugine di primo grado. Una buona trattativa non può esistere senza una buona capacità decisionale. La mancanza di dati nella negoziazione - non fosse altro per le informazioni che la controparte possiede e che noi ignoriamo - è una situazione con cui dobbiamo convivere costantemente, ma avere a disposizione delle informazioni incomplete non significa che quelle a nostra disposizione siano sbagliate. Ignorare, invece, i dati che contraddicono completamente una decisione precedente deve essere preso necessariamente in considerazione e deve influenzare il modo in cui stiamo negoziando.

I negoziati e gli input continui in questo contesto non sono statici. Sono soggetti a cambiamenti di dati, decisioni, prospettive, comportamento, risultati, informazioni, alternative, emozioni, ecc. Quindi, se i nuovi dati suggeriscono che è del tutto controproducente e irrazionale continuare a negoziare qualcosa che porterà a risultati sempre più negativi e lontani da quello che avremmo auspicato, è necessario valutare seriamente il paradigma decisionale in cui ci troviamo.

Inoltre, se stiamo ricevendo indicazioni da qualcun altro per continuare a negoziare, ad esempio un esperto sul tema, occorre avere il coraggio di chiedere il “perché” anche al “guru” del settore di turno. Come evidenzia Silvana Dalla Bontà, fondatrice del progetto Conflict Managers of Tomorrow presso l’Università di Trento, il buon negoziato deve sempre essere preceduto e costantemente accompagnato da un’analisi attenta dell’oggetto del contendere e del contesto in cui ci si muove.

Questo significa individuare, sia prima che durante lo svolgimento della negoziazione, tutte le possibili alternative al negoziato in modo da valutare con attenzione se proseguire o meno nella trattativa sia davvero vantaggioso. La scelta se perseverare in una strada già imboccata od optare per una strategia differente non deve infatti essere viziata da distorsioni cognitive e decisionali che possono intrappolare chi negozia, come ad esempio l’avversione alla perdita (continuo ad investire tempo, energie e denaro su qualcosa che mi convinco mi darà in futuro un guadagno, ma che invece è destinato ad essere fallimentare, solo perché non voglio ammettere di aver perso tempo, energie e denaro sino a quel momento).

Bisogna essere in grado di uscire da queste trappole cognitive grazie alla capacità di riformulare in modo oggettivo la cornice del proprio pensiero e così rimanere nel negoziato od uscirne alla luce del proprio reale (e non cognitivamente distorto) interesse. In poche parole, per smettere di sprecare energie, tempo, risorse - non solo nostre, ma anche degli altri - dovremmo abituarci a pronunciare più spesso frasi del tipo: “mi spiace, occorre rivedere il piano” oppure “fermiamoci perché continuare è errato” oppure “ho deciso di interrompere il mio progetto perché stavamo prendendo una cantonata” oppure “ho cambiato idea, facciamo in un altro modo, proposte?”. Nuovi mantra per i leader del futuro, speriamo molto prossimo!

* Partner di Newton Spa


Riproduzione riservata ©

loading...

Loading...

Brand connect

Loading...

Newsletter

Notizie e approfondimenti sugli avvenimenti politici, economici e finanziari.

Iscriviti