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Qanto è intrigante la mafia giapponese

Un reporter americano realizza un’inchiesta sulla yakuza per il giornale nipponico in cui è assunto. Otto episodi, affidati a cinque diversi registi, appassionanti e con una bella azione. Su tutti spicca quello di Mann

di Gianluigi Rossini

 A sinistra, Ken Watanabe il carismatico detective Hiroto

2' di lettura

Affrontiamo subito due dubbi che inevitabilmente sorgono di fronte a Tokyo Vice (uscita in USA su HBO Max il 7 aprile, ancora non c’è una data italiana): innanzitutto no, non ha nulla a che vedere con l’assonante Miami, nonostante Michael Mann diriga il pilot e figuri tra i produttori esecutivi. La serie è invece un adattamento dell’omonimo memoir pubblicato nel 2009 da Jake Adelstein, un americano diventato giornalista di cronaca nera in Giappone. In secondo luogo sì, i due personaggi principali sono americani, così come la gran parte della produzione, nonostante la serie sia ambientata in Giappone e si parli solo di Giappone.

Eppure Tokyo Vice non scade nell’orientalismo, non romanticizza, non fa turismo virtuale: i protagonisti Jake (Ansel Elgort, che forse non era la migliore scelta possibile) e Samantha (Rachel Keller), cittadini statunitensi espatriati a Tokyo, fanno da mediatori per il pubblico occidentale, ma entrambi parlano un perfetto giapponese, si muovono con naturalezza tra i vicoli e i locali della città, sono circondati da personaggi diversificati, tridimensionali e credibili, tra i quali spicca sicuramente il serissimo e carismatico detective Hiroto (Ken Watanabe). Quando un gangster della Yakuza si rivela essere un fan sfegatato dei Backstreet Boys, con un’opinione molto precisa sul significato del testo di I want it that way, ci sembra di percepire l’efficacia di una rappresentazione basata sull’esperienza diretta.

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Ambientata nel 1999, Tokyo Vice ha al suo centro l’inchiesta giornalistica portata avanti da Jake, il primo gaijin (straniero) assunto da un grande giornale giapponese, molto ambizioso e un po’ idealista, totalmente assorbito dalla missione di farsi notare in redazione. Gli otto episodi sono affidati a cinque diversi registi, ognuno dei quali imprime uno stile personale, anche se quello di Mann resta probabilmente il migliore: pochi dialoghi, una macchina da presa molto mobile che costruisce ampi quadri d’insieme muovendosi con grande stile da un dettaglio all’altro.

Nel complesso, la serie riesce a essere allo stesso tempo un’interessante analisi dei personaggi e dell’ambiente in cui vivono, e un appassionante crime sulla yakuza con una buona dose di azione. Non se ne trovano poi tante così.

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