Quale futuro per la destra liberale americana
Il dibattito è la spia del grande strattone alla politica tradizionale rappresentato dall'irrompere del populismo
di Salvatore Carrubba
5' di lettura
Il dibattito sulle sorti del conservatorismo americano rientra in una riflessione più ampia che riguarda il futuro delle grandi ideologie politiche del Novecento e, di riflesso, della politica e della stessa democrazia.
Il conservatorismo democratico non se la passa bene quasi da nessuna parte: è in crisi profonda in Francia e in Italia, zoppica in Germania, in Spagna, in Portogallo: sostanzialmente, è paralizzato dall’angosciosa scelta tra cedere al populismo (e assumere contorni più esplicitamente di destra) o ammorbidirsi in una visione più liberale (e spostarsi dunque a sinistra). Il ciclone Trump, negli Stati Uniti, non semplifica il problema: credo che il personaggio sia insopportabile, in primis, proprio ai repubblicani e ai conservatori che hanno dovuto rimettere in discussione quella piattaforma ideologica di “conservatorismo compassionevole” che aveva assicurato una salda presa sulla Casa Bianca e sul potere.
Di quella crisi, Trump è stato non la causa ma il beneficiario. E adesso un dubbio, più o meno inconfessabile, agita tanti osservatori, in entrambi gli schieramenti: e se Trump, nonostante le smargiassate, potesse esibire nel 2020 dei risultati davvero favorevoli, in termini di crescita, occupazione, posizione degli Usa nel mondo? Non è affatto detto, insomma, che dazi, voce grossa e una spruzzata di statalismo non finiscano col produrre risultati tali da incantare i forgotten men che già hanno fatto vincere Trump due anni fa. E i democratici, come osservava giovedì scorso Janan Ganesh sul Financial Times, farebbero bene a riflettere sull’efficacia della loro forsennata campagna corno Trump basata sull’esaltazione di una politica estera più muscolare e assertiva dei “valori americani”.
Analogamente, meriterà di osservare con attenzione cosa succederà alla Gran Bretagna dopo la Brexit, e verificare se il modello Grande Singapore che affascina i brexiter risulterà davvero fallimentare come oggi ci affanniamo a proclamare.
Il dibattito sul conservatorismo americano, anzi su quello che tecnicamente si è chiamato “neo-conservatorismo”, nel quale appunto si manifesta il fusionismo tra libertà economica e tradizionalismo valoriale, è dunque la spia del grande strattone alla politica tradizionale rappresentato dall’irrompere del populismo. Quest’ultimo, a sua volta è stato agevolato da due fenomeni, che hanno determinato una crisi non meno profonda nel campo della sinistra: le nuove forme di comunicazione e partecipazione politica, che hanno spazzato via il peso degli apparati e delle élite di partito (dove ancora esistevano); e il crollo, presso le opinioni pubbliche occidentali, di certezze e posizioni acquisite, dovuto alle ansie da immigrazione e, soprattutto, da angoscia sul futuro stesso del lavoro.
Il punto, più che discutere del fusionismo, mi pare dunque quello di verificare se e come le lusinghe del populismo possano essere affrontate efficacemente. Chi populista non è, sa che la sfida, oggi, è salvaguardare la sopravvivenza e la funzionalità del sistema democratico tout court. Mi fa sorridere che, dopo aver parlato per anni, impropriamente, di liberal-democrazia, oggi ci ritroviamo a fare i conti col modello della democrazia illiberale. Era improprio il termine allora perché il liberalismo, pur nelle sue diverse sfumature, non può che essere democratico; mentre la democrazia può assumere tante forme, tra cui quelle del modello totalitario, o quello demagogico-populista, che espressamente rifiutano l’ordine liberale basato sul primato della legge, sul principio di rappresentanza, sul contenimento del potere, sul riconoscimento dei diritti, sul confronto, sul pluralismo e l’autonomia degli ordini indipendenti e dei corpi intermedi.
È su questo che si apre il dibattito tra chi ritiene che, a questo punto, l’unica strategia possibile sia quella di chiamare a un’union sacréè contro il populismo, e chi invece rivendica l’esigenza che le grandi culture politiche si dimostrino capaci di ridefinirsi per offrire alternative convincenti, e reciprocamente concorrenziali, al populismo e alla democrazia illiberale. È questa la tesi, per esempio, di uno studioso di Chatham House, Hans Kundnani, che in un recente saggio per l’iniziativa Open Future dell’Economist, notava come proprio l’annacquamento delle rispettive posizioni in un fronte contro i populisti farebbe il gioco di questi ultimi, perché alimenterebbe quel disastroso confronto, rafforzerebbe quel muro inespugnabile fra “noi” (democratici, per bene, benpensanti, colti) e gli “altri” (ignoranti, rozzi, gretti e chiusi): confronto e muro sui quali il populismo ha costruito la sua narrazione (per ora) vincente.
Si torna dunque al tema dell’identità, o della purezza ideologica, che potrà essere affrontata da tutte le famiglie politiche, non solo negli Usa, partendo dalla consapevolezza che viviamo in un mondo, anzi in un pianeta diverso. In questo pianeta inesplorato, c’è posto per i conservatori che non vogliamo farsi irretire o travolgere dal populismo?
Personalmente, ho qualche dubbio. Perché non si realizzino le ricorrenti profezie sulla “fine della democrazia”, dobbiamo essere capaci (tutti: liberali, conservatori e socialisti, con l’apporto - dove è ancora vitale, come in Italia - del cristianesimo sociale), di rilegittimare la democrazia, e nella sua versione liberale. Farla percepire di nuovo come l’unica possibilità di convivenza pacifica, di partecipazione, di tutela degli interessi generali, di controllo dei gruppi di potere, delle consorterie e delle corporazioni. E come già nel secondo dopoguerra, quando il liberale Beveridge inventò il welfare, tale rilegittimazione non può che passare dalla dimostrazione che la democrazia cerca di non lasciare indietro nessuno.
Due recenti opere narrative spiegano meglio di tanti saggi perché gli americani hanno votato per Trump (“Elegia americana”, di J.D. Vance) e gli inglesi per la Brexit (“Il taglio”, di Anthony Cartwright ). I cittadini di quei libri, nella Rust Belt o nel Black Country, prima votavano democratico o laburista. Poi, con la fine dell’economia locale determinata dall’avanzata della tecnologia e della globalizzazione, spenti cementifici e acciaierie, si sono sentiti abbandonati e hanno trovato un solo interlocutore che sembrava occuparsi di loro, e che non poteva certo conquistarli vantando le meraviglie di quella globalizzazione che li aveva messo ai margini. Per riconquistare quei cittadini non basta predicare contro i dazi, occorre offrire loro garanzie di riscatto e risposte ai problemi. E a questo serve un nuovo welfare che superi il modello statalista e burocratico del passato attraverso forme di intervento che sappiano rispondere alle crisi che nel corso dell’esistenza umana si possono presentare a ciascuno, molto più frequentemente che nel passato. La democrazia liberale si salva col fusionismo tra il nuovo welfare (diffuso, partecipato, pluralista e sussidiario), gli spazi di libertà, il pluralismo e il controllo del potere. Questo, per me si chiama liberalismo. Posso capire che i conservatori possano storcere il naso, temendo magari l’avvento di un nuovo Leviatano. Ma ricordo loro che proprio uno dei punti di riferimento del fusionismo americano, Friederick von Hayek, per difendere la propria visione del mercato come garanzia sociale di libertà, aveva scritto un saggio intitolato “Perché non sono un conservatore”.
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