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Quando il capitalismo diventa una religione e il lavoro pretende tutto

Una contraddizione della contemporaneità è una umanizzazione del lavoro che mira a togliere libertà e confondere doveri contrattuali e sfera privata

di Vittorio Pelligra

Tokyo, Giappone

6' di lettura

Che il capitalismo sia andato sviluppando una valenza religiosa, caratterizzata dai suoi riti, le sue feste, i suoi codici, i suoi ministri e sacerdoti, ormai è un dato acquisito. Una “religione di puro culto”, la definiva Walter Benjamin in “Capitalismo come religione” (Il Melangolo). Una religione di puro culto, senza teologia, ma coi suoi dogmi, che non può che trasformarsi presto in una falsa idolatria, come ha recentemente argomentato Luigino Bruni nel suo “Il capitalismo e il sacro” (Vita e Pensiero). Gli agenti principali di tale religione sono naturalmente le imprese, che, infatti, oggi, sempre più i muovono orientate da una specifica “missione” ed una “cultura propria”.

Tra missione e idolatria

Un giro sulle pagine web delle S&P 500, da questo punto di vista, può essere particolarmente istruttivo, ma anche un po' inquietante. Imprese “missionarie” e capitalismo idolatrico – nientemeno – possono essere concetti potenti nell'ambito della riflessione che da qualche settimana abbiamo avviato intorno al tema del lavoro e a quello, più generale, dell'”economia del significato”. Concetti che possono aiutarci a cogliere con uno sguardo non superficiale la natura del rapporto che insiste tra impresa e lavoratori e, quindi, il ruolo che questo rapporto può avere nel generare o negare significato alla vita lavorativa di ciascuno di noi. E, in questo senso, la mission(e) dell'impresa gioca un ruolo nient'affatto secondario, con il suo scopo principale di associare alla finalità dell'agire economico, un significato, se non esplicitamente sacro, certamente ideale e morale.

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Ruolo delle imprese, cambiamento epocale

Il punto da cui vorrei partire in questa riflessione è quello che ci porta a chiederci perché così tante imprese si impegnano pubblicamente, almeno a parole, per mezzo di elaborati argomenti, codici condivisi e dichiarazioni persuasive, a perseguire finalità diverse dalla semplice massimizzazione del profitto. E perché così tanti manager e lavoratori sembrano dare una profonda importanza a tali dichiarazioni? Perché, oggi, sembra meno scontato di un tempo quello che Milton Friedman affermava in un famoso articolo sul New York Times del settembre del 1970, e cioè che “la responsabilità sociale dell'impresa è quella di aumentare i suoi profitti”? Perché, stando, per esempio, ai dati del “2018 Deloitte Global Human Capital Trends Report”, stiamo osservando in questi anni un cambiamento epocale nel ruolo delle imprese nei mercati globali.

Se le relazioni contano più del risultato

Queste, infatti, sono sempre meno di frequente valutate attraverso le metriche tradizionali delle performance finanziarie o della qualità dei loro prodotti e servizi e sempre più sulla qualità della relazione tra imprese e dipendenti, i clienti e le comunità di riferimento. Elementi, questi, sempre più centrali nella creazione, o distruzione, della reputazione d'impresa. Avere dipendenti soddisfatti diventa sempre più necessario per le politiche di sviluppo strategico. Lo hanno capito perfino le principali Business School che si sono affrettate, negli ultimi anni, a moltiplicare corsi di responsabilità e imprenditorialità sociale, perché, secondo tutti i più influenti guru del marketing e delle risorse umane, questi elementi sono diventati determinanti per vincere la guerra all'accaparramento dei migliori talenti e, di conseguenza, dei vantaggi competitivi e, quindi, dei profitti.

Il fattore appartenenza

La versione 2020 del “rapporto Deloitte” sottolinea l'importanza che i lavoratori si sentano sempre di più “appartenere” all'impresa, e per questo è sempre più importante rinforzare la loro impressione di sentirsi trattati equamente, di essere inseriti in una rete di relazioni sociali e di essere nelle condizioni di poter dare un contributo significativo alla riuscita del loro team e dell'impresa stessa. Questo elemento di “appartenenza”, che vediamo oggi assumere un valore centrale nella percezione dei lavoratori e nelle pratiche delle imprese, ma anche delle organizzazioni pubbliche, mette in luce un nodo cruciale nel rapporto tra lavoratore e datore di lavoro.

Appartenere, infatti, significa non solo “sentirsi parte” di una realtà che ci trascende come singoli, ma anche trovarci in una condizione di soggezione che vede limitata la nostra autonomia, la libertà e lo spazio delle opportunità di scelta. L'appartenenza a qualcuno o a qualcosa si gioca in un equilibrio sottile tra la valorizzazione dell'unicità individuale e l'appiattimento verso una identità collettiva; tra la generazione di senso comunitario e l'annientamento della differenza che genera la nostra identità. Per questo è indispensabile e urgente domandarsi quanto la mission(e) di un'organizzazione vada in una direzione o nell'altra. Promuove la creazione di significato per il singolo lavoratore o spinge all'omologazione funzionale alle scelte dell'organizzazione stessa?

Il valore dell’autenticità

In questa polarità si gioca il senso profondo dell'agire manageriale e se, da una parte, questo dipende dalla sensibilità e dalle capacità del singolo, dall'altra, si può solamente leggere nel contesto più ampio della cultura economica più diffusa. Tagliare il nodo gordiano che caratterizza questo dualismo, organizzazione per organizzazione, è tanto più urgente, quanto il valore dell'autenticità è diventato un bene scarso e, quindi, prezioso, per lavoratori e consumatori.

Autenticità, in questo contesto, indica essenzialmente la non-strumentalità di certi comportamenti. Un rapporto autentico con lavoratori e clienti è un rapporto nel quale l'impresa sceglie di essere responsabile per ragioni che hanno valore intrinseco e non per ottenerne un vantaggio diretto o indiretto in termini di maggiori profitti. Questo non significa pretendere dalle imprese un atteggiamento umanitario, significa solo chiedere che le vere ragioni dell'agire siano trasparenti ed evidenti. In ciò sta il significato più immediato della “responsabilità” e cioè la capacità di dare risposte sincere e credibili. O ce l'hai o non ce l'hai. Fingere è la cosa peggiore. Al di là dei pochi casi isolati, di imprese capaci di costruire un rapporto realmente generativo di senso per i propri dipendenti, il quadro generale sembra piuttosto sconfortante. L'evoluzione attuale sembra indicare una strada che porta ad un'accezione di “appartenenza” che vira verso l'esclusività e la spersonalizzazione, la sacralizzazione di ciò che sacro non è, e, quindi, per dirla con Paul Tillich, verso un rapporto “assolutizzato”.

Se il capitalismo diventa una religione

Torna utile, a questo punto, riprendere la riflessione di Benjamin e Bruni sulla dimensione idolatrica del capitalismo contemporaneo. Come ogni religione anche il capitalismo richiede un'adesione incondizionata ed una sottomissione di tutte le diverse sfere dell'esistenza personale ai codici comportamentali della comunità di riferimento. Ed è questo uno dei tratti più nuovi ed allarmanti del neo-managerialismo contemporaneo, se confrontato con le forme precedenti che regolavano le strutture gerarchiche nelle organizzazioni e il lavoro subordinato.

Il linguaggio del lavoro diventa quello della famiglia, degli amici, delle relazioni sociali informali, senza rinunciare, naturalmente, in fondo, in nessun modo, alla dimensione contrattuale e formale della relazione. Così, in questa nuova cornice, il lavoro sfuma nell'amicizia e diventa esigente come questa. L'impresa diventa la famiglia, e così, come a questa ci si sente legati intimamente, allo stesso modo l'impresa non si fa scrupolo ad esigere un legame ugualmente radicale, a chiedere, non di rado, tutto. La (con)fusione degli ambiti di vita e di lavoro genera nuove domande e nuovi obblighi da parte del lavoratore, eppure, fatto curioso, nessuna responsabilità da parte dell'impresa che si vede acquisire, come per legge naturale, solo nuovi diritti. In questo clima quasi-religioso si sviluppano riti e retoriche nuove, liturgie avvolgenti, promesse totalizzanti.

I pericoli di una cultura tossica

Un sintomo rivelatore della diffusione di questo clima è l'ethos che avvolge la generazione dei giovani startupper, le competizioni a loro dedicate, l'atteggiamento dei “business angel” – sì, ci sono anche gli “angeli” – delle giurie che salvano o dannano. Un ambiente che attrae, principalmente pensato per i giovani e popolato da giovani, ma guidato da altri. Una cultura tossica, dove l'entusiasmo dei giovani sfuma nel fervore dei martiri, che fa dell'autenticità un mantra e dell'inautenticità una pratica costante. Un'impresa che pone sfide, un lavoro che impegna, presenta difficoltà e richiede responsabilità possono un essere toccasana per il nostro bisogno di senso e finalità. Un'impresa che, sotto le mentite spoglie della famiglia e degli amici, chiede tutto, e promette quella gioia che deriva dal ritrovare un senso profondo alla nostra azione.

Gioia che solamente promette ma, di fatto, distrugge. Come ogni esperienza totalizzante, in fondo, elimina la responsabilità e quindi la bellezza della personale libertà. I rischi di un lavoro “smart” – per venire ad una implicazione di grande attualità - che si insinua nelle dinamiche familiari e al tempo stesso depotenzia la dimensione sociale del nostro quotidiano, sono rischi assolutamente reali, ma non dipendono tanto dalla modalità lavorativa – a casa, da remoto, via computer – quanto dalla cultura manageriale ed economica, più in generale, che la determina e concorre a definirla.

Nelle pagine conclusive del suo “Ritual and Religion in the Making of Humanity” (Cambridge University Press), Roy Rappaport ci porta a riflettere su quella che chiama la “fondamentale contraddizione dell'umanità” e, cioè, il fatto secondo cui il nostro bisogno di narrare il mondo secondo modalità che assegnino significato al nostro posto in esso, ci può portare a costruire modi di stare al mondo che distruggono la stessa possibilità di trovare proprio quel significato più autentico. Allo stesso modo ne “Il disagio della modernità” (Laterza), Charles Taylor rinveniva un movimento simile quando notava come lo “sviluppo” della civiltà ci ha portati ad un'era di maggiore individualismo, al predominio della ragione strumentale e ad una radicale perdita di libertà.

Umanizzare ma senza doppi fini

Sulla stessa onda, il capitalismo moderno e le sue grandi sacerdotesse-imprese rischiano di elargire risposte al bisogno di senso di ciascuno di noi-lavoratori, con modalità che rischiano di distruggere, allo stesso tempo, proprio la possibilità di trovare questo senso, nel suo significato più profondo e autentico. L'umanizzazione del lavoro, se non ricercata in maniera autentica, libera e non-strumentale, rischia di trasformarsi in una de-umanizzazione, non solo del lavoro, ma della vita stessa. Quando parliamo di sviluppo, ad ogni livello, credo non si possa prescindere dal trovare una risposta soddisfacente a questa fondamentale contraddizione della contemporaneità, insieme nelle sue sfere economica, sociale e politica.


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