In casa e sulla pelle: quando il design incontra la bellezza e la cura di sé
Il ritorno alla materia, alla densità, al gesto che, tramite il tatto, esplora il mondo. A partire da materiali ruvidi e irregolari come il travertino.
di Letizia Muratori
5' di lettura
Fino all'altro ieri, il tatto è stato il grande emarginato nella gerarchia sensoriale contemporanea. La società social, chiamiamola così, ha conferito alla vista un primato pressoché assoluto, mentre le esperienze tattili sono state date un po' troppo per scontate. L'emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid e il conseguente, famigerato, distanziamento sociale, hanno dato il colpo di grazia a una tendenza che era già in atto da anni.
Al tempo stesso, però, le interdizioni da contatto ci hanno portato a sperimentare cosa significhi, davvero, vivere senza alternative nel mondo delle immagini digitali, sfiorando esclusivamente i nostri, liscissimi, dispositivi. A qualcuno sarà pure capitato di osservare una persona anziana che, messa nella condizione di comunicare con un suo caro attraverso Skype, Zoom o WhatsApp, non ha resistito all'impulso di sfiorare con l'indice l'immagine apparsa sullo schermo. Bene, questo uso affettivo, caldo e ingenuo del touch screen è antifunzionale quanto commovente, e forse negli ultimi due anni la smania irresistibile di accarezzare le immagini, dietro cui si celano persone e corpi, ci ha contagiati un po' tutti.
Il tatto, si dice, è il più indomabile dei sensi, non per niente nelle sale di un qualsiasi museo le regole impongono, giustamente, di non toccare le opere esposte, ma non è detto che la spinta a farlo sia necessariamente vandalica, al contrario: è quel desiderio, insopprimibile, di esplorare le cose con le dita, non solo attraverso il filtro visivo. Nel recente passato ci siamo rapportati agli altri, e perfino ad alcune superfici potenzialmente infettanti come fossero opere d'arte inviolabili. Bardati, mascherati e distanziati, abbiamo vissuto questa interminabile gita al museo della vita quotidiana, sempre a un passo dall'essere redarguiti dal guardasala di turno, col terrore che scattasse un qualche allarme atto a smascherare il nostro desiderio, illecito e proibito, di toccare. Toccare non per credere, ma per fare esperienza di qualcosa, dunque toccare per conoscere. E si sa che l'illecito e il proibito sono magneti piuttosto forti.
Da tempo combatto una piccola, spero non inutile, battaglia per la riabilitazione del tatto, ma anche dell'udito e dell'olfatto, come strumenti conoscitivi perché penso che la dittatura delle immagini mortifichi una sfera importante delle nostre facoltà intellettive, prima ancora che affettive e psicologiche. Ora, chi scrive non è una persona, come si dice, fisica, anzi, ed è ovvio che l'esperienza visiva o, se vogliamo, virtuale non è affatto disincarnata, è un dato di realtà alla pari degli altri, ma qualora, come è successo, diventi l'unica esperienza possibile, l'unica praticabile, allora avvertiamo inevitabilmente la mancanza del resto come una forma di menomazione. E così finisce che desideriamo non solo sfiorare, ma toccare roba solida, ruvida, che abbia volume e una consistenza tale da ancorarci a quella vita che altrimenti sentiamo scivolare via.
Le immagini, sempre loro, che vediamo in queste pagine sembrerebbero confermare una rinnovata voglia di materia, di spessore. Riappare il travertino, il metallo, la pietra naturale e il gres per gli oggetti e le superfici. In questo contesto pezzi di design ed elementi d'arredo sono stati, per niente a caso, affiancati alle creme beauty, anch'esse all'insegna della densità. La texture pesante, un tempo bandita, è oggi la più desiderabile, come se il nostro viso, corpo, avessero bisogno di una consueta ristrutturazione profonda e notturna, certo, ma conta anche il gesto che aggiunge e stende materia sulla pelle, come se ne volessimo plasmare un'altra sulla nostra. L'intramontabile maschera, sì, ma elastica e scultorea. Il punto forse è proprio questo: la prassi curativa è anche cosmetica e non viceversa, mira alla metamorfosi dell'immagine in superficie, il cui scopo non è solo l'effetto visivo, ma l'esperienza tattile. Chiunque segua, con un minimo di interesse, l'evolversi della comunicazione in ambito beauty, avrà notato come le varie, più o meno celebri, influencer da un po' di tempo a questa parte puntino su un effetto naturale, apparentemente nudo e crudo. Il gusto, spesso molto esibito, con cui si spalmano questi unguenti, oli, creme e balsami è la spia di una nuova fonte di piacere: toccarsi, riplasmarsi, scolpirsi, sentirsi vivi. Alla fine non si sente alcun desiderio di coprire la preparazione della superficie, è di per sé make-up. A volte, lo ammetto, questi visi rigenerati, anche quando sono ritoccati non fa differenza, mi danno l'impressione di essere pronti per essere mangiati, hanno qualcosa di alimentare. Dunque circola una vera e propria fame di materia che non è da sottovalutare.
Il sospetto che il trattamento beauty in sé stia diventando un po' il fine dello skincare e non solo uno strumento terapeutico, preventivo, mi seduce da un po'. Ciò detto, è ovvio che prodotti evoluti come l'olio notte di La Prairie , il balsamo di La Mer , la crema levigante di Revival – il brand di Palace Merano che incorpora il concetto di longevity – il siero di Shiseido e di Sisley Paris o il contorno occhi di Estée Lauder abbiano tutti un intento rigenerante e curativo. Eppure viene la tentazione di non rimuovere questa bella patina al mattino, soprattutto di godersi il momento dell'applicazione del prodotto non solo come una routine, ma con quel piacere, tattile, di cui sentiamo all'improvviso bisogno. Curare la propria pelle non è solo duro lavoro quotidiano, ma un gesto estetico che dà gusto a chi lo compie e a chi ne misura, stavolta anche solo con gli occhi, i risultati.
Lo spessore e la materia, legate al piacere, si intrecciano naturalmente al gioco, e il travertino che vediamo in queste pagine è tutt'altro che prestato a un uso monumentale e classico. Dallo svuotatasche Toupy di Mademoiselle Jo alla MA House di Kengo Kuma per Salvatori , l'intento comune sembrerebbe quello di giocare con il peso, con le forme dell'infanzia: il primo è, infatti, una trottola sospesa, mentre la scultura di Kengo Kuma propone un'idea di casetta elementare quanto assoluta. La leggerezza, qualora se ne avvertisse la nostalgia, qui si riconquista attraverso il disegno.
Non si discosta molto da questo approccio il portasapone di Kristine Five Melvaer, prodotto dall'azienda belga When Objects Work : funzionalissimo – risolve l'eterno problema del ristagno grazie ai tagli diagonali da cui defluisce l'acqua – ma, perché no, dentro ci si può pure immaginare l'impronta di un fossile, è una forma che rimanda a certi pezzi di travertino puramente ornamentali che svettavano sulle scrivanie dei primi anni Ottanta, sui coffee table davanti ai divani. Infine il mosaico ovale Navona, fatto con il nuovo gres Mystone di Marazzi , è così imperfetto e venato da sembrare pietra naturale e qui veniamo a un altro elemento legato al tatto e ai suoi misteri: l'irregolarità di una superficie da percorrere, la presenza di ostacoli che impongono ritirate, svolte, inciampi, contrattempi. Tutto ciò che sulla carta evitiamo come la peste, se percorso con le mani diventa invece fonte di eccitazione, un fuoripista avventuroso. Fosse solo per questo potere di esorcizzare le nostre paure profonde: perdersi, fermarsi, bloccarsi, ferirsi, vale la pena tornare a toccare la materia di cui è fatto il mondo, l'universo, e non dall'altro ieri, non da prima del Covid, ma dalla notte dei tempi.
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