Quando il “mister” va oltre la panchina
Ci sono stati uomini come Herbert Chapman che hanno inventato le regole fondamentali del calcio e uomini come Árpád Weisz che sono stati un simbolo di resistenza al nazifascismo: che cosa significa lasciare il segno, anche oltre il gesto agonistico
di Dario Ricci
4' di lettura
La Stonehenge del calcio. Sì, la panchina sprigiona la medesima energia. Luogo di esaltazione e di supplizio, mai comoda, spesso incandescente. Chi ci si siede sopra è angelo o demone, e può cambiare stato in un istante. Questa premessa è d'obbligo se si vuole azzardare una pur minima classifica – in rigoroso ordine sparso – di quegli uomini (e, come vedremo, anche donne) che da quella panchina hanno lasciato la loro traccia non solo nella storia del calcio, ma nell'evoluzione del costume e delle idee. D'altronde in ogni sport, l'allenatore non è solo cruciale per atleti e squadra, ma a ben guardare è una miniera di spunti – tattici, fisici, psicologici, persino etici. Self coaching, a uso e consumo del pubblico.
E allora eccolo il posto d'onore per Herbert Chapman, leggendario manager che agli albori del Novecento creò il mito dell'Arsenal, ma soprattutto traghettò l'intero calcio inglese dal dilettantismo al professionismo: a lui dobbiamo, tra l'altro, il suggerimento alle autorità calcistiche di introdurre l'illuminazione per le gare in notturna, i numeri per distinguere i giocatori e la tattica “WM”, un modulo di gioco chiamato in questo modo perché la disposizione in campo dei giocatori ripete idealmente la forma di queste due lettere.
Per conoscerlo e studiarlo, mosse verso “la terra d'Albione” il nostro Vittorio Pozzo, torinese, che alla guida degli azzurri conquistò i Mondiali 1934 e 1938, e le Olimpiadi di Berlino 1936 (“triplete” ancor oggi ineguagliato nella storia del gioco). Ma se l'eredità calcistica di Pozzo è nota, ancora da rivalutare è il suo ruolo a tutto campo di intellettuale poliglotta, giornalista, vero e proprio ambasciatore dell'Italia nel mondo tra le due guerre.
Inghiottito dal buco nero di Auschwitz, insieme all'intera sua famiglia, Árpád Weisz è stato l'allenatore magiaro che vinse lo scudetto con Inter e Bologna e che scoprì il talento di Giuseppe Meazza, prima di essere costretto a lasciare l'Italia, lui ebreo, a causa delle leggi razziali del 1938. La sua vicenda, a lungo dimenticata e riscoperta solo all'inizio degli Anni Duemila, è monito e memoria del tributo pagato anche dallo sport alla follia nazifascista.
Da cronista partecipò alla Grande Marcia di Mao e allo sbarco in Normandia; ma il suo essere comunista nel Brasile della dittatura militare impedì a João Saldanha di sedere sulla panchina dei verdeoro che avrebbero poi vinto la Coppa Rimet in Messico nel 1970, e che lui stesso aveva condotto – imbattuti – alla qualificazione alla fase finale
del Mondiale.
In quegli stessi anni stava sbocciando il tulipano rappresentato dall'Ajax e dalla Nazionale olandese, che aveva in Johan Cruijff il suo profeta del gol e in Rinus Michels il suo demiurgo, a dare forma calcistica ai fermenti sociali che attraversarono il Novecento a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Talenti capaci di un calcio dinamico e tecnico al tempo stesso, gli olandesi, con un continuo scambio di ruoli, quasi a riprodurre su quel prato verde l'ondata di riforme e cambiamenti richiesti dal movimento giovanile in più parti d'Europa.
Non è un caso se il seme di quel football troverà terreno fertile, dove attecchire, nella Catalogna da sempre pervasa da fremiti e pulsioni indipendentiste, rappresentate in pieno da quel tiki-taka (al tempo stesso tattica offensiva e strategia difensiva contro un avversario magari più imponente, ma infinitamente meno scaltro sotto il profilo tecnico-strategico) che Pep Guardiola ha fatto diventare assioma della post-modernità calcistica, affondando le radici della sua filosofia pallonara proprio in quei blaugrana che ebbero Cruijff in campo (e poi in panchina negli anni Novanta) e Michels alla guida (in due diverse parentesi negli anni Settanta). Ponte ideale tra “lancieri” e blaugrana fu, per una breve ma intensissima stagione nella prima metà degli anni Ottanta e insieme al Milan “all'olandese” di Arrigo Sacchi, la Dinamo Kiev targata Valerij Lobanovs'kyj, demiurgo di una squadra che rappresentò la fase epigonale del calcio sovietico e la sua natura già autonomista, radicata com'era nel cuore di quell'Ucraina allora come oggi ben distante dal centralismo moscovita.
E iniziava in quegli stessi anni la lunga parabola dello scozzese Alex Ferguson sulla panchina del Manchester United, al timone dei Red Devils dal 1986 e fino al 2013: longevità praticamente ineguagliata e ineguagliabile in un top team globale, e basti questo per valutare l'impronta lasciata da sir Alex sul gioco e la cultura british.
E l'altra metà del calcio? Basti ricordare colei che da giocatrice ha vinto tutto, venendo inserita anche nella Hall of Fame del calcio mondiale, e che da allenatrice, sempre in ambito femminile, ha vinto tanto: eppure Carolina Morace ha cambiato la storia nel luglio 1999, quando divenne la prima donna alla guida di una squadra maschile, accettando la panchina della Viterbese, in C1, offertale dal vulcanico presidente Luciano Gaucci. Durò poco, ma aprì una strada.
Imperfetto come ogni canone che si rispetti, anche questo presenta la sua eccezione. Accantonati per qualche istante albi d'oro e palmares (che pur annoverano un secondo posto conquistato alla guida degli Azzurri agli Europei del 2012), c'è rimasta negli occhi e nel cuore la Nazionale che Cesare Prandelli portò in pellegrinaggio prima ad Auschwitz e poi a Rizziconi, in Calabria, sui campi da gioco ricavati dai terreni confiscati alla malavita locale. Piccoli gesti che non hanno cambiato il gioco, ma provato a modificare le sue regole.
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