Quando il populista gioca a fare il banchiere centrale
Turchia, Messico ed El Salvador sono la prova che le ingerenze nella politica monetaria hanno un costo
di Donato Masciandaro
3' di lettura
Se il politico vuol fare il banchiere centrale, la moneta rischia; se poi il politico è un populista, l’azzardo monetario diventa ancor più alto. Se è vero che tre indizi fanno una prova, vale la pena ricordare cosa è accaduto nei giorni scorsi in Turchia, Messico ed El Salvador.
In Turchia, la lira ha perso fino al 40% del suo valore da inizio anno, mentre l’inflazione viaggia al 20 per cento. La ragione è la politica monetaria che il presidente Recep Tayyip Erdoğan vuole che la sua banca centrale persegua proprio per combattere l’inflazione: abbassare i tassi di interesse. E se la banca centrale non è d’accordo, il governatore viene cambiato: è accaduto nel luglio 2019, quando è stato licenziato il governatore Murat Çetinkaya; la stessa fine ha fatto il suo sostituto Murat Uysal a novembre 2020 e il successore di quest’ultimo Naci Ağbal, licenziato nel marzo scorso.
In Messico il presidente Andrés Manuel López Obrador ha nominato governatore della banca centrale Victoria Rodríguez Ceja, che la stampa internazionale ha definito «una sconosciuta economista, proveniente dal settore pubblico». La reazione dei mercati internazionali è stata negativa: il peso messicano ha perso in un giorno quasi il 2% del suo valore nei confronti del dollaro.
Il presidente salvadoregno Nayib Bukele ha annunciato un nuovo passo per “bitcoinizzare” il suo Paese: dopo aver dato – prima nazione al mondo – corso legale alla criptovaluta, ha espresso l’intenzione di emettere titoli del debito pubblico in bitcoin. La reazione dei mercati finanziari è stata negativa.
I tre episodi hanno alcuni elementi in comune:
1 c’è un presidente che viene giudicato populista;
2 il presidente vuole orientare la politica monetaria;
3 i mercati finanziari puniscono tale orientamento.
Qual è il legame che li unisce? La risposta è quello che l’analisi economica ci ha finora insegnato sul populismo monetario.
Il punto di partenza generale è la constatazione che i populisti endemicamente non amano i banchieri centrali. Citando Raghuram Rajan, già chief economist del Fondo monetario internazionale e governatore della Reserve Bank of India dal 2013 al 2016, «i banchieri centrali, con i loro dottorati di ricerca, il loro linguaggio, le loro riunioni in posti come Basilea e Jackson Hole, rappresentano per i populisti la quintessenza di quelle élite che loro amano odiare».
Ma al di là di una presunta avversione antropologica, c’è una incompatibilità strutturale tra le finalità politiche di un populista è quello che è oggi il mestiere del banchiere centrale. Per l’analisi economica il populista è un politico “speciale”. In quanto politico, la sua finalità è quella di massimizzare il consenso elettorale, quindi il suo orizzonte temporale tende a essere breve. Poi la sua specificità è quella di essere con il “popolo”, contro le élite: le politiche economiche devono essere, o almeno apparire, redistributive.
Ma se è questo il populismo, la collisione con il banchiere centrale è inevitabile. Il banchiere centrale deve essere un tecnocrate con un orizzonte lungo, e tutelare in quella prospettiva il valore della moneta che i cittadini utilizzano. È cioè un Signor No: deve impedire che la moneta venga utilizzata dal politico per interessi di breve periodo e di parte, che sono poi due caratteristiche intrecciate. Quindi l’architettura istituzionale deve garantire al Signor No di essere indipendente. Ma un populista non può accettare un Signor No: se il burocrate non dice sì, lo si sostituisce.
Ma una politica monetaria miope implica per il Paese che la subisce il rischio bolla. Il rischio bolla si può presentare come una inflazione dei prezzi al consumo, o dei prezzi finanziari, o dei prezzi degli immobili, o con una svalutazione. Se è questo quello che può succedere in prospettiva, i mercati votano: pollice verso per il populista che vuol fare il banchiere centrale.
loading...