Opinioni

Quando il progresso economico e sociale soccorse la diplomazia

di Valerio Castronovo

(George Dolgikh - stock.adobe.com)

11' di lettura

Sessant’anni fa, nel maggio 1961, in coincidenza con il centenario dell’unità d’Italia, tornò alla ribalta una questione spinosa come quella altoatesina che si pensava fosse stata risolta una volta per tutte grazie all’accordo firmato a Parigi il 5 settembre 1946 fra il nostro presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e il cancelliere austriaco Karl Gruber. In base all’intesa l’Italia s’era impegnata a riconoscere all’Alto Adige-Sudtirolo un’ampia autonomia amministrativa, culturale ed economica, la completa uguaglianza di diritti nell’accesso ai pubblici uffici e il bilinguismo. In precedenza, al tavolo dei negoziati sulla definizione dei trattati di pace, gli Alleati avevano respinto le richieste della delegazione austriaca su alcune zone del Trentino e dell’Alto Adige a maggioranza etnica e linguistica tedesca. Di fatto, era stata una proposta formulata dal ministro degli Esteri francese Georges Bidault, a tracciare il quadro normativo dell’accordo siglato tra Roma e Vienna.

Senonché, quando si concluse infine l’occupazione quadripartita dell’Austria con la Conferenza di Mosca nel maggio 1955, il ministro degli Esteri Leopold Figl aveva dichiarato che il suo governo intendeva adesso avvalersi di una reintegrato potere negoziale per «risolvere con tutta energia la questione dell’Alto Adige». Da allora venne così prendendo il via una vicenda che, sconfinata dal terreno politico-diplomatico, sfociò in una sequenza crescente di forti tensioni e violenze, epicentro la provincia di Bolzano, con risvolti torbidi e inquietanti destinati a prolungarsi per una quindicina d’anni.

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D’altronde, quanto fosse difficile promuovere e consolidare un clima effettivo di convivenza etnica e civile, lo dimostrava il fatto che non erano mai cessate le rimostranze della comunità sud Tirolese e nemmeno avevano mai smesso di verificarsi alcuni attentati dinamitardi: tanto che nel febbraio 1957 era stato arrestato il direttore del quotidiano «Dolomiten» Friedl Volgger, già deputato del Südtiroler Volkspartei (Svp), accusato di aver organizzato i principali attentati compiuti negli ultimi anni in Alto Adige. Di conseguenza, non sarebbe poi bastato che da Roma si seguitasse a ribadire, nel confronto con il governo austriaco, che l’Italia stava applicando in pieno gli impegni sottoscritti nell’accordo del 1946: perciò il governo Tambroni propose nel 1960 a quello austriaco di Julius Raab di sottoporre alla Corte internazionale dell’Aia la controversia altoatesina tra i due Paesi, accettando successivamente la richiesta di Vienna che essa venisse trasferita all’esame dell’Assemblea generale dell’Onu.

Dopo un ampio dibattito (a cui parteciparono il nostro ministro degli Esteri Antonio Segni e quello austriaco Bruno Kreisky) le Nazioni Unite invitarono, con un apposito documento del 27 ottobre, Roma e Vienna a riprendere i negoziati. Ma questa nuova tornata di trattative si concluse, nell’incontro finale a Klagenfurt, il 24 maggio 1961, con un totale insuccesso.

Da quel momento prese decisamente il sopravvento la componente politica sudtirolese più radicale che, invocando la totale autonomia dell’Alto Adige, firmò fra l’11 e il 12 giugno una serie di attentati ai tralicci elettrici nei pressi di Bolzano (che verrà definita come “la notte dei fuochi”), a cui avrebbe fatto seguito, per mano di vari gruppi di estremisti, una lunga trafila di azioni terroristiche analoghe, ma anche di assalti contro caserme locali dei carabinieri e alcuni bersagli a scopo dimostrativo a Verona e a Trento.

Soltanto del novembre 1969 Aldo Moro e Kurt Waldheim, in veste di ministri degli Esteri, giunsero a sanare il profondo dissidio che aveva diviso così a lungo i due Paesi. Ma se ciò avvenne, fu soprattutto perché i progressi economici e sociali succedutisi nel frattempo, trasformando una delle contrade originariamente più chiuse e tradizionali per la sua struttura quasi del tutto agro-pastorale, avevano contribuito ad attutire i contrasti e reso l’Alto Adige una delle regioni della Penisola caratterizzate da maggiori livelli di occupazione, servizi sociali e tenore di vita familiare. Sta di fatto che il nuovo accordo fra Roma e Vienna sull’assetto del Sud Tirolo-Alto Adige, prevedendo ulteriori garanzie per la comunità di lingua tedesca, sollevò in sede parlamentare obiezioni e riserve, e venne poi approvato in dicembre dalla Camera e dal Senato con l’astensione del Partito liberale e dell’opposizione di sinistra e con il voto contrario delle destre.

Secondo la direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) Ngozi Okonjo-Iweala le politiche vaccinali in questa pandemia sono in realtà politiche economiche.

Con una strategia impari e sbilanciata di distribuzione delle dosi, il recupero dell’economia globale sarà molto lento e riguarderà anche i Paesi con i tassi di immunizzazione più elevati. La divergenza delle economie che ne sta derivando è stata definita «pericolosa» dal Fondo monetario internazionale durante il recente Global health summit di Roma. Per uscirne, occorre trovare il modo di aumentare drasticamente la capacità produttiva di vaccini per garantire una ripresa efficiente delle economie e dei sistemi sanitari, e la riduzione drastica dei morti. L’andamento epidemiologico fa stimare che, nonostante la disponibilità di vaccini, la pandemia farà più vittime a livello globale quest’anno che in quello passato.

La strategia seguita fino a oggi (e ri-confermata al Global health summit), basata essenzialmente su licenze volontarie di aziende che per lo più non avevano mai prodotto vaccini prima della pandemia, non sembra poter garantire l’obiettivo. L’esternalizzazione alle cosiddette Cmo (contract manufacturing organization) tramite un veloce trasferimento delle tecnologie di produzione secondo strategie puramente commerciali lascia al palo tutti i Paesi fuori dal G20 e non risponde né ai bisogni economici globali, né tanto meno a quelli sanitari. Un problema che i Paesi ricchi non potranno risolvere solo offrendosi di pagare dosi di vaccino o donando quelle accaparrate.

Occorre poter identificare, coordinare e usare tutto il potenziale di produzione mondiale, e il più velocemente possibile. A oggi sono state prodotte 1,3 miliardi di dosi di vaccini contro il Covid-19 e i volumi sono in crescita. Tuttavia, dobbiamo passare dall’attuale capacità produttiva di 5 miliardi di dosi di vaccini, a 15 miliardi di dosi e più, anche alla luce del fatto che presto bisognerà pensare anche ai richiami. Una sfida non comune, con cui neppure l’industria farmaceutica si era mai misurata prima.

In questo contesto va letta la proposta presentata lo scorso ottobre da India e Sud Africa alla Wto perché siano sospese in via temporanea alcune disposizioni dell’accordo Trips (Trade-related aspects of intellectual property rights) relative a copyright, design industriale, brevetti e informazioni riservate (segreti industriali) per aumentare la produzione globale di diagnostici, terapie e vaccini al fine di contenere, prevenire e trattare il Covid-19.

Dopo 7 mesi di discussioni, la recente notizia del supporto americano alla proposta ha portato speranza, soprattutto nella comunità di esperti del settore. Anche Bill Gates, inizialmente contrario al Trips Waiver proposto da New Delhi e Pretoria, ha cambiato parere, allineandosi a chi appoggia l’idea. La Dichiarazione partorita dal Global health summit di Roma appare invece contraria, perché si affida solo a licenze e trasferimenti di tecnologia su base volontaria, o obbligatoria, già previsti dal Trips e già dimostratisi operativamente inadeguati nel corso delle pandemie, inclusa quella dell’Hiv.

L’aspetto positivo del Trips Waiver riguarda però un fatto tanto semplice quanto efficace: se la proprietà intellettuale non costituisse una barriera ci si potrebbe focalizzare sull’unico obiettivo che conta, l’aumento del volume produttivo globale di vaccini, e su come arrivarci in modo pragmatico ed efficace. A questo fine, la difficoltà non riguarda tanto i brevetti. Per esempio, quello di partenza della tecnologia mRNA è di proprietà del governo americano, che non ha mai avuto alcuna intenzione di proteggerlo col monopolio, anzi. Tutti i produttori che usano tale tecnologia hanno libero accesso. Moderna ha dichiarato sin dall’anno scorso che non avrebbe iniziato alcuna causa legale per l’uso dei propri brevetti. Inoltre, sia per i vaccini cinesi sia per quello russo sono state rilasciate licenze globali e sono state sospese le protezioni delle proprietà intellettuali nell’interesse di una collaborazione totale. Perché dunque non abbiamo visto ulteriori produttori di questi vaccini?

Il problema riguarda altri aspetti della proprietà intellettuale che appunto sono ben circostanziati nel Trips Waiver e che costituiscono il cosiddetto know-how, il trasferimento delle conoscenze necessarie per arrivare al prodotto finito. Esattamente quanto fatto finora su base volontaria da Oxford, da BioNTech o da Moderna con molte Cmo. Gli immensi investimenti pubblici di un anno fa hanno conferito agli Stati il diritto a ricevere dosi di vaccino, ma non alla condivisione della “conoscenza”.

L’ambasciatrice americana presso la Wto ha assicurato che un accordo sul Trips Waiver dovrà giustamente bilanciare i diritti delle aziende farmaceutiche alla proprietà intellettuale e gli incentivi per l’innovazione con un’equa distribuzione dei vaccini in tutto il mondo. Il messaggio di Biden alle aziende farmaceutiche è stato un’esortazione a non avere paura, ma a divenire parte della soluzione. Una soluzione che gioverebbe a tutti.

I negoziati alla Wto stanno per riprendere con queste basi, il che è senz’altro positivo. Purtroppo mai come in questa pandemia, il tempo si traduce in vite perse ed economie al collasso. Una soluzione non sarà facile e il rischio che occorrano molti altri mesi è reale. Negli incontri tenuti il mese scorso dalla direttrice generale della Wto con varie rappresentanze industriali si sono individuate diverse realtà produttive pronte a entrare in gioco in molti Paesi in tutti i continenti.

Lo scoglio rimane il trasferimento della tecnologia all’interno di uno schema che mantenga gli incentivi all’innovazione e compensi adeguatamente l’industria. Una possibilità potrebbe essere quella di acquistare il know-how e trasferirlo a tutte le possibili capacità produttive disponibili, ma non ancora utilizzate. Fallito il tentativo promesso e ribadito di rendere i vaccini un “bene comune”, si potrebbe investire ora nel rendere il know-how un global public good.

Non costerebbe poco, ma sarebbe certamente meno caro che provare a vaccinare il mondo con le limitazioni attuali. Sarebbe stato enormemente più semplice ed economico farlo al momento di negoziare l’acquisto anticipato di miliardi di dosi, ma non fu fatto e non possiamo tornare indietro. Il know-how è stato essenzialmente privatizzato dopo essere stato ampiamente finanziato dagli Stati, a condizioni non sempre favorevoli all’interesse pubblico, e per questo acquistarlo ora diventa ulteriormente costoso.

Tuttavia, se i governi arrivassero a collaborare in modo trasversale, coordinato e cooperativo con l’obiettivo di sconfiggere la pandemia nel modo più veloce possibile, potrebbero accordarsi per creare un fondo di acquisizione (buyout fund) con cui pagare il trasferimento della tecnologia. Il Covid-19 technology access pool (C-Tap) potrebbe esserne il contenitore e il Technology transfer hub istituito dall’Oms è pronto a riunire tutte le competenze necessarie ai trasferimenti di tecnologia, come riconosciuto al summit di Roma. Occorre solo la volontà e la leadership per farlo. I G20 hanno clamorosamente perso la loro chance. Potranno i G7 occupare questo vuoto?

Secondo la direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) Ngozi Okonjo-Iweala le politiche vaccinali in questa pandemia sono in realtà politiche economiche.

Con una strategia impari e sbilanciata di distribuzione delle dosi, il recupero dell’economia globale sarà molto lento e riguarderà anche i Paesi con i tassi di immunizzazione più elevati. La divergenza delle economie che ne sta derivando è stata definita «pericolosa» dal Fondo monetario internazionale durante il recente Global health summit di Roma. Per uscirne, occorre trovare il modo di aumentare drasticamente la capacità produttiva di vaccini per garantire una ripresa efficiente delle economie e dei sistemi sanitari, e la riduzione drastica dei morti. L’andamento epidemiologico fa stimare che, nonostante la disponibilità di vaccini, la pandemia farà più vittime a livello globale quest’anno che in quello passato.

La strategia seguita fino a oggi (e ri-confermata al Global health summit), basata essenzialmente su licenze volontarie di aziende che per lo più non avevano mai prodotto vaccini prima della pandemia, non sembra poter garantire l’obiettivo. L’esternalizzazione alle cosiddette Cmo (contract manufacturing organization) tramite un veloce trasferimento delle tecnologie di produzione secondo strategie puramente commerciali lascia al palo tutti i Paesi fuori dal G20 e non risponde né ai bisogni economici globali, né tanto meno a quelli sanitari. Un problema che i Paesi ricchi non potranno risolvere solo offrendosi di pagare dosi di vaccino o donando quelle accaparrate.

Occorre poter identificare, coordinare e usare tutto il potenziale di produzione mondiale, e il più velocemente possibile. A oggi sono state prodotte 1,3 miliardi di dosi di vaccini contro il Covid-19 e i volumi sono in crescita. Tuttavia, dobbiamo passare dall’attuale capacità produttiva di 5 miliardi di dosi di vaccini, a 15 miliardi di dosi e più, anche alla luce del fatto che presto bisognerà pensare anche ai richiami. Una sfida non comune, con cui neppure l’industria farmaceutica si era mai misurata prima.

In questo contesto va letta la proposta presentata lo scorso ottobre da India e Sud Africa alla Wto perché siano sospese in via temporanea alcune disposizioni dell’accordo Trips (Trade-related aspects of intellectual property rights) relative a copyright, design industriale, brevetti e informazioni riservate (segreti industriali) per aumentare la produzione globale di diagnostici, terapie e vaccini al fine di contenere, prevenire e trattare il Covid-19.

Dopo 7 mesi di discussioni, la recente notizia del supporto americano alla proposta ha portato speranza, soprattutto nella comunità di esperti del settore. Anche Bill Gates, inizialmente contrario al Trips Waiver proposto da New Delhi e Pretoria, ha cambiato parere, allineandosi a chi appoggia l’idea. La Dichiarazione partorita dal Global health summit di Roma appare invece contraria, perché si affida solo a licenze e trasferimenti di tecnologia su base volontaria, o obbligatoria, già previsti dal Trips e già dimostratisi operativamente inadeguati nel corso delle pandemie, inclusa quella dell’Hiv.

L’aspetto positivo del Trips Waiver riguarda però un fatto tanto semplice quanto efficace: se la proprietà intellettuale non costituisse una barriera ci si potrebbe focalizzare sull’unico obiettivo che conta, l’aumento del volume produttivo globale di vaccini, e su come arrivarci in modo pragmatico ed efficace. A questo fine, la difficoltà non riguarda tanto i brevetti. Per esempio, quello di partenza della tecnologia mRNA è di proprietà del governo americano, che non ha mai avuto alcuna intenzione di proteggerlo col monopolio, anzi. Tutti i produttori che usano tale tecnologia hanno libero accesso. Moderna ha dichiarato sin dall’anno scorso che non avrebbe iniziato alcuna causa legale per l’uso dei propri brevetti. Inoltre, sia per i vaccini cinesi sia per quello russo sono state rilasciate licenze globali e sono state sospese le protezioni delle proprietà intellettuali nell’interesse di una collaborazione totale. Perché dunque non abbiamo visto ulteriori produttori di questi vaccini?

Il problema riguarda altri aspetti della proprietà intellettuale che appunto sono ben circostanziati nel Trips Waiver e che costituiscono il cosiddetto know-how, il trasferimento delle conoscenze necessarie per arrivare al prodotto finito. Esattamente quanto fatto finora su base volontaria da Oxford, da BioNTech o da Moderna con molte Cmo. Gli immensi investimenti pubblici di un anno fa hanno conferito agli Stati il diritto a ricevere dosi di vaccino, ma non alla condivisione della “conoscenza”.

L’ambasciatrice americana presso la Wto ha assicurato che un accordo sul Trips Waiver dovrà giustamente bilanciare i diritti delle aziende farmaceutiche alla proprietà intellettuale e gli incentivi per l’innovazione con un’equa distribuzione dei vaccini in tutto il mondo. Il messaggio di Biden alle aziende farmaceutiche è stato un’esortazione a non avere paura, ma a divenire parte della soluzione. Una soluzione che gioverebbe a tutti.

I negoziati alla Wto stanno per riprendere con queste basi, il che è senz’altro positivo. Purtroppo mai come in questa pandemia, il tempo si traduce in vite perse ed economie al collasso. Una soluzione non sarà facile e il rischio che occorrano molti altri mesi è reale. Negli incontri tenuti il mese scorso dalla direttrice generale della Wto con varie rappresentanze industriali si sono individuate diverse realtà produttive pronte a entrare in gioco in molti Paesi in tutti i continenti.

Lo scoglio rimane il trasferimento della tecnologia all’interno di uno schema che mantenga gli incentivi all’innovazione e compensi adeguatamente l’industria. Una possibilità potrebbe essere quella di acquistare il know-how e trasferirlo a tutte le possibili capacità produttive disponibili, ma non ancora utilizzate. Fallito il tentativo promesso e ribadito di rendere i vaccini un “bene comune”, si potrebbe investire ora nel rendere il know-how un global public good.

Non costerebbe poco, ma sarebbe certamente meno caro che provare a vaccinare il mondo con le limitazioni attuali. Sarebbe stato enormemente più semplice ed economico farlo al momento di negoziare l’acquisto anticipato di miliardi di dosi, ma non fu fatto e non possiamo tornare indietro. Il know-how è stato essenzialmente privatizzato dopo essere stato ampiamente finanziato dagli Stati, a condizioni non sempre favorevoli all’interesse pubblico, e per questo acquistarlo ora diventa ulteriormente costoso.

Tuttavia, se i governi arrivassero a collaborare in modo trasversale, coordinato e cooperativo con l’obiettivo di sconfiggere la pandemia nel modo più veloce possibile, potrebbero accordarsi per creare un fondo di acquisizione (buyout fund) con cui pagare il trasferimento della tecnologia. Il Covid-19 technology access pool (C-Tap) potrebbe esserne il contenitore e il Technology transfer hub istituito dall’Oms è pronto a riunire tutte le competenze necessarie ai trasferimenti di tecnologia, come riconosciuto al summit di Roma. Occorre solo la volontà e la leadership per farlo. I G20 hanno clamorosamente perso la loro chance. Potranno i G7 occupare questo vuoto?

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