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Quando pubblicare libri è costruire ponti tra civiltà distanti

Tra i tanti primati che vanta la città di Venezia c’è anche quello di essere la patria in cui, grazie ad Aldo Manuzio, è nata l’editoria in Italia

di Giuseppe Lupo

(Photocreo Bednarek - stock.adobe.com)

3' di lettura

Tra i tanti primati che vanta la città di Venezia c’è anche quello di essere la patria in cui, grazie ad Aldo Manuzio, è nata l’editoria in Italia. Un riconoscimento destinato a quell’«Editore che nel panorama internazionale ha saputo sviluppare progetti editoriali che si sono distinti per qualità, innovazione e capacità di promuovere e diffondere, attraverso i libri, le culture di tutto il mondo» – così recita la declaratoria – non poteva trovare luogo più idoneo se non in questa città. Soprattutto non poteva non intitolarsi che a Cesare De Michelis, editore-intellettuale tra i più fedeli al modello di Manuzio, interprete raffinato e coraggioso alla ricerca di nuovi stimoli, anima e guida della casa editrice Marsilio per oltre un cinquantennio, dagli anni della fondazione, a Padova, nel lontano 1961, fino al giorno in cui è mancato, nell’agosto del 2018. Basterebbero già questi elementi per comprendere quale sia lo scopo del premio nato per iniziativa della casa editrice Marsilio, di Fondazione di Venezia, del Festival letterario Incroci di civiltà. Vocazione cosmopolita, dunque, e capacità progettuale, elaborazione di idee nuove e indagini sulla dimensione umana nel confronto con i paradigmi della modernità: sono questi i punti cardine del discorso e nessun’altra cornice sarebbe stata più idonea della cerimonia inaugurale di «Incroci di civiltà». Il festival, infatti, si allinea perfettamente a quella tradizione che costituisce l’autentica vocazione di Venezia, il suo essere archetipo di mondi che sconfinano uno nell’altro – oriente, occidente, etnie, religioni, lingue – e si addizionano fra loro dando vita a una dimensione antropologica che da sempre rivendica il privilegio del dialogo e del confronto. Ma negli auspici di chi ha tenuto a battesimo il premio non c’è soltanto il lascito di un’eredità culturale. Piuttosto si è voluto marcare una sorta di impegno a rimodulare il mestiere di fare libri in termini di militanza intellettuale, nel segno cioè di una regola morale secondo cui le idee continuano a conservare il potere di modificare gli equilibri del mondo, nonostante le grandi trasformazioni avvenute negli ultimi decenni, a causa delle quali le parole stampate hanno dovuto coesistere, più o meno inconsapevolmente, con linguaggi complementari, primo fra tutto quello della virtualità o della realtà digitale.

Le parole vissute in senso tradizionale non hanno perduto il terreno su cui camminare e dopo la rivoluzione di Gutenberg, dopo la geniale inventiva di Aldo Manuzio continuano a essere il motore delle trasformazioni, come se prima ancora di diventare esercizio di civiltà politica, debbano incubare la loro avventura sulle pagine dei libri e del-le collane.

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Per trovare una figura di editore che risponda a requisiti così ambiziosi, la giuria (di cui faccio parte) ha dovuto guardare verso quell’oriente a cui Venezia non ha mai smesso di rivolgere i propri interessi sin dai tempi di Marco Polo e la scelta è ricaduta su Naveen Kishore, fondatore ed editore di Seagull Books, casa editrice indipendente, fondata a Calcutta nel 1982 e con sedi a Londra e New York. «Naveen Kishore» – afferma la motivazione della presidente della giuria, Teresa Cremisi – «ha contribuito a portare ai lettori indiani la migliore letteratura mondiale in traduzione inglese. Oltre al preciso lavoro sul piano editoriale, Seagull Books si impegna in ambito sociale supportando progetti educativi e di formazione professionale, promuovendo un dialogo costante tra diverse lingue e classi sociali. Un lavoro che si sostanzia ulteriormente, attraverso la Seagull Foundation for the Arts, con la Scuola per l’Editoria aperta a studenti di tutto il mondo».

Kishore è la testimonianza di come si possa ancora credere nei libri e nella loro persuasiva lotta contro la dissolvenza della memoria che molto probabilmente è il vero buco nero di questa porzione di tempo in cui viviamo. Non a caso, la sua vocazione di editore comincia sotto questo impulso, se è vero ciò che egli stesso dichiara quando narra come gli sia venuta in mente l’idea di fondare una casa editrice. Era il 1982, aveva ventinove anni e stava osservando uno spettacolo teatrale in strada. Ve-dendo esibirsi un giovane attore, ha pensato che i suoi gesti, la grazia dei suoi movimenti, lo sforzo nel cercare la perfezione del corpo in un determinato spazio e l’emozione provata si sarebbero perduti se nessuno li avesse raccontati. Pubblicare libri, al pari di scriverli, significa salvare qualcosa che il tempo destina all’oblio, alla non-memoria o all’antimemoria. È un gesto liturgico che mette al sicuro le storie dal passaggio del tempo. La vocazione di Kishore sarebbe piaciuta tantissimo a Cesare De Michelis, che talvolta, nello spiegare le modalità del suo lavoro, ricorreva alla metafora delle bottiglie lanciate in mare, a cui erano stati affidati i manoscritti nella speranza che qualcuno, cioè l’editore, fosse pronto sulla battigia a raccoglierli.

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