Quei valori moderni che spingono a innovare
di Edmund S. Phelps
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In Occidente, le nazioni soffrono da tempo di un insieme di sintomi: tassi di rendimento del capitale investito modesti; livelli dei salari e del reddito nazionale che crescono a ritmo da lumaca; soddisfazione lavorativa limitata, in particolare tra i giovani; rapporti tra patrimoni e salari elevati, che riducono gli incentivi a lavorare e risparmiare; livelli di debito pubblico patologici nella maggior parte dei Paesi; e (in alcuni Paesi) un incremento considerevole del numero di persone in età lavorativa che non vogliono o non riescono a trovare un lavoro. Alcuni autori parlano di «fine del capitalismo».
La causa immediata della stagnazione in Occidente è il persistente rallentamento della produttività, che è cominciato in America intorno al 1968 per poi estendersi all’Italia e alla Francia intorno al 1998, e al Regno Unito e alla Germania intorno al 2004.
La causa di fondo dei rallentamenti della produttività in queste economie, parlando in senso lato, sono le perdite nette dell’innovazione autoctona complessiva, al netto dei guadagni derivanti dalla rivoluzione digitale e da altre fonti. Questo calo netto è stato più accentuato negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia, e da solo è stato sufficiente a rallentare la crescita della produttività in tutte le economie occidentali.
Sorprende che l’Italia, che aveva un elevato tasso di innovazione «importata» finché era impegnata a colmare il distacco dai Paesi più ricchi, negli anni 50 e 60, avesse cominciato ad accumulare un livello significativo di innovazione «autoctona» solo intorno al 1980, per poi perderlo quasi interamente già nel 1995 o giù di lì.
Secondo alcuni economisti, come il mio amico Joseph Stiglitz, l’importanza principale delle perdite di innovazione – in Italia, Francia, Regno Unito e Stati Uniti – sta soprattutto nel fatto che i membri della forza lavoro si sentono danneggiati dal rallentamento della crescita dei salari. Ma quanti secoli di crescita dei salari deve avere un Paese prima che la gente si senta appagata?
Frank Ramsey e John Maynard Keynes ritenevano, nel 1928, che di lì ad alcuni decenni la gente si sarebbe saziata di consumi. Tutto questo strepitare sulla crescita dei salari comincia a suonare falso, almeno alle mie orecchie.
L’importanza principale di ciò a cui stiamo assistendo è che le perdite di innovazione, in particolare l’innovazione autoctona, hanno privato molti lavoratori delle ricompense individualistiche, che sono qualcosa di molto più profondo delle ricompense «collettive», come guadagnare il tasso salariale generale e comprare al livello dei prezzi generale. Mi spiego meglio. Noi esseri umani non siamo delle macchine. La cosa più preziosa per noi è la capacità di agire e la portata dell’azione che siamo in grado di esercitare. Le soddisfazioni moderne sono individualistiche, non «collettive». Per come la vedo io, ci sono tre tipi di ricompense individualistiche.
Il primo è che una persona può ricavare soddisfazione dal fatto di realizzare qualcosa attraverso i propri sforzi, e può trovare soddisfazione nel fatto di ottenere, come risultato, migliori condizioni o un maggior riconoscimento. Queste ricompense sono empiriche e possono avere un aspetto creativo. Sono legate al «successo» o, per usare un termine più ristretto, alla «prosperità» (dal latino pro spere, che significa come sperato, secondo le aspettative). I successi assumono forme diverse: un’impiegata che ottiene un aumento come riconoscimento degli ottimi risultati sul lavoro; un artigiano che vede la sua bravura, acquisita in anni di duro lavoro, tradursi in un prodotto migliore; un mercante che vede con soddisfazione le sue navi che arrivano; uno studioso che vede convalidate le sue capacità quando riceve una laurea ad honorem.
Il secondo tipo di ricompensa è quando una persona ricava soddisfazione dal fatto di vivere una vita gratificante: il brivido di addentrarsi nell’ignoto, l’eccitazione delle sfide, la gratificazione di superare gli ostacoli e il fascino dell’incertezza. Emerson scriveva che «una vita è un viaggio, non una destinazione».
Ultima, ma non meno importante, c’è la soddisfazione di «agire sul mondo», per usare la terminologia hegeliana, e, con un po’ di fortuna, «lasciare un segno», magari cambiando il mondo («creare un debito», come dicevano i Beatles). A mio parere questi due ultimi tipi di soddisfazione corrispondono a quello che si intende con il verbo fiorire.
C’è qualche prova a supporto di questa tesi che una perdita di innovazione autoctona in un Paese provochi una grave perdita di soddisfazione umana nelle persone che hanno un impiego? Il mio libro Mass Flourishing, che uscirà in traduzione italiana quest’anno, segnala evidenze ricavate dalle World Values Surveys, che mostrano come nel 1990-1991 il livello medio di soddisfazione lavorativa dichiarata fosse molto basso nei Paesi affetti da livelli ridotti di innovazione autoctona (Italia e Francia, per esempio) e relativamente alto nei Paesi con livelli relativamente alti di innovazione autoctona (in particolare Svizzera, Danimarca e Stati Uniti). Ora lo stesso team di ricercatori ha estratto evidenze dai dati 2008 delle European Values Surveys, mostrando come, nei 13 Paesi economicamente avanzati dell’Europa occidentale, quelli agli ultimi posti per numero di persone che dichiarano una soddisfazione lavorativa «alta» o «abbastanza alta» – Spagna, Francia e Italia – sono in fondo alla classifica anche per tassi di innovazione autoctona, mentre quelli ai primi posti per soddisfazione lavorativa – Svizzera e Danimarca – lo sono anche nell’innovazione autoctona.
Qual era la fonte di innovazione autoctona che, in molti Paesi, procurava quel genere di soddisfazioni che definisco «prosperare» e «fiorire»? E quali sono le cause del calo di questa innovazione?
Nel mio libro fornisco alcune evidenze del fatto che l’innovazione era anche pervasiva – in tutti o quasi tutti i settori – e inclusiva – dagli strati più bassi della società a salire. Buona parte, forse la maggior parte, del contributo dell’innovazione alla crescita economica può essere ascritta alle nuove idee delle persone comuni che prendono parte alla vita economica.
Prima di andare avanti: ci sono prove a supporto dell’affermazione che il desiderio di innovare è alimentato dai valori? Un’analisi statistica dello stesso gruppo di ricercatori sui dati di un campione di 18 Paesi dell’Ocse mostra che i Paesi che hanno una performance economica maggiore (misurata in livelli di soddisfazione lavorativa e tassi di partecipazione della forza lavoro) hanno livelli più alti dei valori giusti o livelli più bassi di quelli sbagliati.
Orbene, io sostengo che la grave carenza di innovazione autoctona in molti Paesi dell’Europa occidentale e del Nord America non viene da un’assenza di occasioni di profitto e non viene da una qualche omissione del settore pubblico (come ponti e gallerie non costruiti), ma da un declino dei valori moderni che accendevano il desiderio di innovare.
Gli economisti questa cosa non l’avevano capita. Erano schumpeteriani, convinti che le innovazioni che osserviamo siano applicazioni ovvie da parte di un imprenditore esperto della scoperta di uno scienziato, oppure hayekiani, convinti che quello che osserviamo in realtà siano gli «adattamenti» che risultano quando un uomo d’affari perspicace intuisce opportunità inedite e in evoluzione.
Che cos’è successo, nella sfera dei valori, che può spiegare la debolezza dell’innovazione autoctona in Italia e nel Regno Unito, in Francia e in America? Quando pensiamo alle importantissime innovazioni in quei Paesi sembra impossibile pensare che i valori moderni siano andati perduti.
Ma che dire del vitalismo? Ce n’è ancora in abbondanza nelle nostre società? Non ne sono convinto. Mi chiedo se gli americani siano ancora persone che amano agire. Hanno ancora il gusto della competizione, come nei decenni tra gli anni 50 dell’Ottocento e metà anni 60 del Novecento? O sono dei pantofolai ossessionati dal flusso continuo di tweet?
Mi sembra che nell’era attuale (dopo la guerra) ci sia il terrore dell’«incertezza di Knight». Ne ha appena parlato il papa. La gente è infastidita dall’assenza di direzione che i valori modernisti hanno inoculato nell’economia.
L’ossessione per il breve termine dei capitani d’impresa e dei nostri rappresentanti parlamentari (basta guardare i tagli delle tasse proposti a Washington) è un’altra ipotesi.
Ho la sensazione anche che ci sia stato un declino dell’individualismo in Occidente.
Sono scioccato nel vedere i giovani rispondere nei sondaggi che vogliono rimanere nella loro città natale, vicino ai loro amici o addirittura continuare a vivere a casa! È un ritratto dell’America quasi irriconoscibile per me.
C’è qualcosa di più di una carenza di valori moderni dietro al declino dell’innovazione. La società ora aderisce a una serie di valori antitetici, che possono interferire con i valori moderni. Negli anni 90 dell’Ottocento emerse - in Germania, Francia e Italia - un nuovo sistema di valori conosciuto con il nome di corporativismo, che venne messo in pratica nel periodo fra le due guerre. L’essenza di questa dottrina è che la società è un «corpo» coordinato, e le aziende, quindi, non devono fare cose che danneggino le Stato e possono essere obbligate ad agire per il bene della società: è antitetico all’individualismo. Un aspirante innovatore potrebbe essere considerato egoista, e se la sua innovazione ha successo essere giudicato dirompente e quindi antisociale.
L’emersione dell’uso distorto dei brevetti e di normative protezionistiche sono altri esempi. Vorrei limitarmi a sottolineare che un’economia ha bisogno di un certo grado di tutela dei brevetti e di alcune regole di base, ma una giungla di regolamenti rende complicato creare nuove imprese e presenta rischi legali per i dipendenti e i manager delle imprese che vogliano provare a sperimentare nuovi metodi.
Infine, i politici hanno preso misure specifiche che bloccano direttamente la concorrenza che può venire da idee nuove. L’ingresso delle nuove aziende è ostacolato con una serie di azioni (dai dazi e le quote fino agli aiuti alle aziende già esistenti) per preservare le imprese consolidate dal rischio di perdere quote di mercato. Inoltre, quando le aziende esistenti sono al sicuro dalla concorrenza di imprese con idee nuove, possono permettersi di ridimensionare i loro sforzi di innovazione difensivi. Tutto ciò rappresenta un rigetto dell’individualismo in favore dell’azione collettiva.
Insomma, siamo di fronte a un importante distanziamento dai valori moderni – il necessario individualismo, il vitalismo e l’espressionismo – che hanno alimentato un’innovazione su larga scala nelle maggiori economie occidentali. E siamo di fronte a un’ascesa dei valori postmoderni, che attribuiscono alle imprese non a scopo di lucro un valore maggiore che alle imprese capitalistiche. Per riconquistare il dinamismo di un tempo dobbiamo tornare a quei valori modernisti e rigettare i valori postmoderni.
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