Quel milanese tipico della Puglia
Lo stradone col bagliore è un documentario, anzi un film in senso pieno
di Roberto Escobar
3' di lettura
«Sono nato prevalentemente a Milano, il 3 giugno 1945». Siamo in una delle prime sequenze di Lo stradone col bagliore. Davanti alla macchina da presa di Ranuccio Sodi parla l’antico giovanotto che tanto tempo fa, vinto a fatica il perbenismo della Rai, entrò nelle case degli italiani in giacca e cravatta, ma con i scarp del tenis.
Oggi Enzo Jannacci avrebbe ottantacinque anni, essendo nato il 3 giugno, ma del 1935, non del 1945. Il lapsus non ci interessa, ci interessa il prevalentemente. Di questo racconta Sodi, montando ottanta minuti delle sessanta ore registrate in quarant’anni di amicizia: della sua incertezza e precarietà di radici (ammesso che un uomo abbia radici, e se ne stia piantato come una lattuga).
Lo stradone col bagliore è un documentario, anzi un film in senso pieno. O forse non è né un film né un documentario. Non lo è perché non lo si può vedere, né al cinema né in televisione. Finito nel 2015 e passato in un paio di festival, è stato fermato dall’onerosità dei diritti musicali per la quarantina di brani accennati dal suo “protagonista”. D’altra parte, si può raccontare un musicista mettendone a tacere le note? Non lo vedrete mai, Lo stradone col bagliore, a meno che… In ogni caso, proviamo a farvene sentire il gusto.
Si comincia nella Milano del Dopoguerra, colma dei nuovi milanesi venuti dal Sud. All’inizio del secolo, anche i nonni paterni del giovanissimo Enzo erano stati nuovi milanesi, essendo saliti dalla Puglia. Lui era quel che si dice un “milanese tipico”. Non c’è ironia in questa definizione. Sodi la usa con molto rispetto, e con molta verità. Se Milano si andava facendo metropoli, dalla città che era stata, il merito era anche di chi, arrivato in cerca di una vita migliore, le stava dando la propria speranza e il proprio lavoro, la propria rabbia e le proprie emozioni.
Milanese tipico
Per quanto milanese tipico, di Milano Jannacci parlava splendidamente la lingua. Lo chiamava proprio lingua, l’amato dialetto, e ne manteneva i suoni anche cantando nel suo italiano stralunato, con le parole che c’erano e non c’erano (come lampi nella nebbia, osserva Sodi). Di certo stralunato lo trovò il povero funzionario della Rai davanti al quale intonò Il cane coi capelli, che «erano diritti e belli». Fu cacciato, peraltro in coerenza con la seconda strofa: «non si dà retta a un cane coi capelli».
Come molti (futuri) milanesi tipici, Jannacci soffriva l’esclusione sociale, e continuò a patirla, per sé e per gli altri, quando ormai il successo e l’integrazione erano arrivati. Escluso, e dolorosamente ribelle, è il suo Giovanni telegrafista, tratto dai versi del brasiliano Cassiano Ricardo. Esclusa è la sua Vincenzina, che con Beppe Viola immaginò fra le migliaia e migliaia che come lei, con il velo nero in testa, sfiorite per la fatica a vent’anni, aspettavano i mariti “davanti alla fabbrica”, molto prima che Milano diventasse da bere. Ed escluso fra gli esclusi è il disperato di cui tutti abbiamo riso e ridiamo, quello del «vengo anch’io… no, tu no».
Questa precarietà, questa dolorosa e feconda mancanza di radici è il valore profondo di quel “nato prevalentemente”, e forse anche il senso del non-film, del film negato che è Lo stradone col bagliore. Non lo vedrete, purtroppo. A meno che Milano non sappia essere all’altezza di se stessa, e non trovi il modo, e le risorse, per ridare voce alla memoria del più tipico dei milanesi.
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