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Quella panchina che indica l’Europa

Da giocatore, Roberto Mancini scompaginava le difese con un solo, secco tocco. Ora che guida gli Azzurri, guarda al talento e chiede tenacia

di Maria Luisa Colledani

(REUTERS)

4' di lettura

Il sentimento prima della ragione, e l’istinto sopra tutto perché il cuore ha sempre ragione. Da calciatore, Roberto Mancini scompaginava le difese con un tocco - uno solo, secco e definitivo -, si involava in porta e creava distillati di bellezza. Oggi, che guida gli Azzurri all’Europeo, mette quel suo bagaglio infinito di esperienza al servizio di un sogno. Quando, con nove vittorie consecutive, eguagliò il primato - vecchio 80 anni - del ct Vittorio Pozzo, disse: «Il record? Mi interesserebbe vincere due Mondiali e un’Olimpiade come lui. Ma diciamo che mi basterebbe conquistare l’Europeo».

L’Europeo dell’Italia

Ha iniziato bene contro la Turchia (3-0) e, se la giovane Italia di Barella e Immobile, di Chiesa e Donnarumma se la gioca, è perché in panca c’è lui, Roberto Mancini: «È diventato migliore senza nascondere i difetti, gli eccessi che lo hanno frenato. Mettendo sempre al centro il talento, che fosse in campo o in panchina, ma abbinandolo alla tenacia, alla voglia di non mollare. Anche per questo è stato un leader ingombrante: in ogni rimprovero, in ogni sfogo improvviso verso un compagno, c’era una naturale tendenza alla perfezione. Quella di chi ha sempre visto scorrere le cose con un occhio diverso rispetto agli altri». Marco Gaetani, giornalista e scrittore, nel suo Roberto Mancini, senza mezze misure , individua proprio in questo sguardo altro l’unicità del calciatore, del ct e dell’uomo.

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Talento precoce

Roberto, figlio di Aldo, il falegname, e di Marianna, ha 13 anni quando lascia Jesi per trasferirsi a Bologna. A neanche 17 anni segna il suo primo gol in serie A: «era leggero nel fisico e nell’anima, sapeva essere quasi incorporeo pur essendo tremendamente concreto». Danza con il pallone, poi la stoccata quasi andasse di fioretto. È un predestinato per il quale il mercato si accende: Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria, ha un progetto di ampio respiro e lo sceglie. Con Gianluca Vialli diventano i Gemelli del gol, una fabbrica di sogni e di quelle storie che fanno innamorare. Lo scudetto della Samp del 1991 è l’apoteosi, il riverbero di una società dove prima di tutto c’erano uomini. Mancini dice a Boškov, quasi un secondo padre dopo Mantovani: «Mister, in attacco non gioco. Devo giocare più indietro». E quel mago di Vujadin: «Tu fai la punta libera». Così Mancini diventa immenso, un 10 da almanacco. L’anarchia è la sua bussola, è l’ordine senza il potere, un po’ George Best, un po’ Gigi Meroni, prestigiatore e giocatore sartoriale insieme: si adatta alla partita, a quello che le difese gli offrono, diventando ora rifinitore, ora finalizzatore.

La parabola di un predestinato

La libertà, impossibile nelle gabbie di oggi, è la forza della storia di Mancini e di questo libro che la sa cogliere nelle pieghe dei gol e anche delle liti violente: «A 16 anni volava in contropiede, a 26 dosava i suoi affondi per piazzarli nei momenti più importanti, a 36 non gliene rimaneva neanche uno, in un calcio già abituato ad altri ritmi, ma sapeva comunque prendere il tempo a un difensore, ingannarlo, illudere con un colpo di tacco un intero stuolo di uomini intenti a fermarlo». Bellezza accecante ravvivata da una personalità pensante (quanti atleti lo sono?) ma offuscata da tante ombre: il poco azzurro vestito in carriera o i momenti di rabbia molto manciniani e «in quegli scatti d’ira, nelle imprecazioni per un passaggio sbagliato o per un fischio sgradito, il tifoso trovava un tratto profondamente umano pur dovendo riconoscere quanto inumano fosse il talento. Mancini era allo stesso tempo sacro e profano, irraggiungibile, eppure così vicino».

La Sampd’oro e i Gemelli del gol

Genova lo ama e quell’amore è il fuoco che lo fa ballare, facendosi beffe del tempo, fino alla finale di Wembley persa ai supplementari nel maggio 1992 contro il Barcellona: al fischio finale Mancini si siede a centrocampo e piange. La Sampd’oro finisce quella notte e anche l’età dell’innocenza.

Muore Mantovani, la Samp è in disarmo, Vialli va alla Juve e Mancini alla Lazio, dov’è praticamente onnipotente e segna di tacco in Parma-Lazio del ’99 una delle reti più immaginifiche del nostro calcio. Lascia vincendo scudetto e Coppa Italia. Dal campo alla panchina dei biancocelesti crea una Lazio bella, a tratti irresistibile. Passa alla Fiorentina e poi all’Inter, diventando un insegnante di calcio, prima che un gestore. Le quattro stagioni al Manchester City lo rendono internazionale, con quello scudetto vinto al 92’ grazie a un gol di Sergio Agüero. Poi, Galatasaray, di nuovo Inter e Zenit San Pietroburgo, fino alla chiamata in azzurro, lui che dall’azzurro si è spesso sentito osteggiato.

Sulla panchina azzurra

A Coverciano ricostruisce una famiglia: «A fare la differenza è stato ancora una volta il valore dei legami costruiti nel cammino che lo ha portato da Jesi fino alla panchina più ambita d’Italia. Sono tutti lì, gli amici di sempre: nello staff, insieme a Vialli, ci sono Fausto Salsano, Attilio Lombardo, Giulio Nuciari e Massimo Battara».

L’Europeo è qui e ora, l’azzurro, come il mare di Genova, brilla davanti agli occhi di Mancini: «Roberto è il capitano, il leader - ricorda l’amico e compagno Siniša Mihajlović -. Alla Samp faceva tutto: il presidente, l’allenatore, il giocatore, il tifoso e il rompipalle».

Roberto Mancini, senza mezze misure, Marco Gaetani, 66th and 2nd, pagg. 256, € 18

Riproduzione riservata ©

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