Interventi

Quelle considerazioni «economico-morali» che fecero scuola

di Luigi Federico Signorini

3' di lettura

Dai miei predecessori in Banca d’Italia ho ereditato un privilegio singolare. Tutte le volte che entro nell’ufficio del direttore generale, vado a sedermi (Domine non sum dignus!) alla scrivania che fu di Luigi Einaudi nel tempo in cui governò l’istituzione.

Il computer, o meglio una batteria di computer, ha preso il posto della penna stilografica con cui egli vergava le sue note nella nitida calligrafia che conosciamo, e delle cartelline con gli appunti e con i dispacci scritti a macchina. Ma l’oggetto e il luogo seguitano a ispirare rispetto e ammirazione anche a chi lo frequenta quotidianamente, per abitudine lavorativa.

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Fu, quello di Einaudi in Banca d’Italia, un tempo breve. Tecnicamente durò un po’ più di tre anni: dal 5 gennaio del 1945, quando, con la guerra ancora in corso, lo chiamò all’ufficio di governatore Marcello Soleri, ministro del Tesoro nel governo Bonomi, fino all’11 maggio del 1948, quando si dimise formalmente alla vigilia dell’insediamento alla Presidenza della Repubblica. Ma di fatto aveva già lasciato la responsabilità della Banca al suo successore, l’allora direttore generale Donato Menichella, un anno prima, il 1° giugno del 1947, nel momento cioè in cui assunse la posizione di ministro delle Finanze e del Tesoro (poi del Bilancio) e di vice presidente del Consiglio nel quarto governo De Gasperi. Mantenne tuttavia nominalmente anche da ministro (nonché deputato alla Costituente) la carica di governatore—un cumulo che oggi sarebbe impossibile, e che perfino allora fu il frutto di un’eccezione, giustificata dalla sua personalità unica e dalle straordinarie circostanze
del momento.

Governò dunque la Banca per un solo esercizio pieno, quello del 1946; e alla relazione di bilancio su quell’anno ebbe appunto l’idea di aggiungere in calce le proprie considerazioni personali di responsabile dell’Istituto, volendo giustapporre alle «analisi contabili» quella che chiamò, come ho ricordato all’inizio di questo colloquio, un’analisi «economico-morale».

Ho cercato di documentare l’importanza dell’impostazione data da Einaudi alle Considerazioni finali. Nella lingua, nella logica, nell’esposizione della teoria economica e dei fatti che caratterizzano il suo documento del 1947 si riconoscono – pur espressi nello stile personalissimo del loro autore – elementi di cui si continuerà a sentire l’eco negli analoghi documenti successivi. Nonostante il mutare delle stagioni politiche ed economiche degli ultimi tre quarti di secolo, e nonostante le differenti personalità e la diversa formazione culturale dei sette governatori che si sono succeduti da allora, certe preoccupazioni (l’autonomia della funzione monetaria, l’attenzione per la gestione oculata della finanza pubblica, ad esempio), sono costanti.

Su alcuni aspetti – e ho provato a fornire anche di questo qualche esempio – si percepiscono evoluzioni significative.

Non è mai venuto meno l’impulso che guidò Einaudi la prima volta: dar pieno conto del fatto e del da farsi; mantenersi autorevoli, parlando chiaro.

E ricorre, se non ogni volta certo spesso, l’esortazione, appena velata di una patina di retorica civile, a farsi carico di una responsabilità collettiva: dall’«è necessario che gli italiani non aspettino la salvezza della lira da nessun Messia, da nessun supposto taumaturgo» di Einaudi (CF 1946), allo «sta in noi» di Ciampi (CF 1979, CF 1983, CF 1991), e oltre. Nei limiti imposti dall’occasione non ho potuto certo offrirvi, partendo da Einaudi, una ricognizione sistematica dei temi delle Considerazioni finali.

Sarebbe stato necessario un lavoro di ricerca ben più lungo e intenso; ne sarebbe scaturito un prodotto del tutto fuori di proporzione. Spero però che quel poco che ho detto possa bastare a convincere dell’utilità di compulsarle. Chiunque lo faccia, non può mancare – io credo – di ritrovarvi alcuni tra i più interessanti e notevoli punti di vista sulla storia dell’economia, e del pensiero economico, di questo Paese.

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