Interventi

Quello che la produttività non dice sul mondo del lavoro

di Innocenzo Cipolletta

(Bloomberg)

3' di lettura

La produttività del lavoro altro non è, nella sua accezione più comune, che il rapporto tra la variazione del Pil e quella dell’occupazione: cresce se la prima supera la seconda ed è negativa in caso contrario. Questa misura ha due grossi limiti. Il primo è che misura la produttività marginale (ossia le variazioni), senza nulla dire della produttività assoluta, ossia quante unità (o valore) di prodotto si ricavano dal lavoro di una persona (o ora lavorata). Il secondo è che, nella sua accezione relativa all’economia nel suo complesso, non tiene conto degli effetti di composizione che alterano la sua dinamica. Vediamoli molto brevemente.

Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il Prodotto interno lordo per addetto (occupato) in termini reali è aumentato, tra il 2000 e il 2018, del 11,8% in Francia e del 9,4% in Germania, mentre è sceso (-3,9%) in Italia, il che conferma la performance negativa dell’Italia e la distanza con gli altri Paesi (vedere tabella). Tuttavia, il rapporto tra Pil a prezzi correnti e occupati indica che in Italia un lavoratore generava nel 2000 un valore (57.387 euro) prossimo a quello della Germania (58.687) e, malgrado la riduzione anzidetta della produttività, ancora nel 2018 il lavoratore italiano generava un valore (75.763) non troppo distante da quello della Germania (81.256). Il lavoratore francese, invece, superava tutti sia nel 2000 (64.941 euro) che nel 2018 (92.373). Con questi dati, sarebbe lecito affermare che la Francia è il Paese più produttivo e più competitivo d’Europa e che l’Italia, a livello di produttività, è comunque vicina alla Germania. Possibile? La realtà è più complessa.

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Continuando nella nostra analisi, possiamo vedere che la Germania ha un Pil per abitante decisamente più elevato di tutti. Infatti, la Germania nel 2018 ha avuto un Pil pro-capite (prezzi correnti) pari a 41.035 euro, contro i 36.197 euro della Francia e i 28.961 euro dell’Italia. Sulla base di questi dati, non potremmo che sostenere che la Germania sta molto meglio della Francia e dell’Italia.

Ma come si spiegano queste differenze di valutazione quando si passa dal prodotto per occupato a quello per abitante? In effetti, queste differenze derivano dal diverso tasso di occupazione (rapporto tra gli occupati e la popolazione), ben più elevato in Germania (50,5% nel 2018) che in Francia (39,2%) e in Italia (38,3%).

Ne deriva che il maggiore Pil pro-capite della Germania rispetto a Italia e Francia non deriva tanto da una maggiore produttività dei suoi lavoratori, bensì da una maggiore occupazione di persone che hanno mediamente una (relativamente) bassa produttività. Il più basso prodotto per addetto della Germania rispetto alla Francia, unitamente al più alto tasso di occupazione, indica che in quel Paese, accanto a lavoratori con alta produttività, sono inclusi anche molti lavoratori a più basso livello medio di produttività. Ne discende che la sola osservazione della produttività marginale può dirci ben poco sulla competitività e capacità di crescita di questi paesi.

Il secondo limite ha a che vedere con le variazioni di composizione. Prendendo ad esempio l’Italia, dobbiamo constatare che nel corso degli ultimi venti anni abbiamo liberalizzato il mercato del lavoro, che era molto rigido, e accolto molti immigrati. In altre parole, abbiamo integrato molti lavoratori a bassa produttività (ossia a basso rapporto prodotto per addetto), il che ha favorito il tasso di occupazione, ma ha depresso la produttività. Tuttavia, un simile fenomeno non implica una perdita di competitività del Paese (come mostra la bilancia dei pagamenti), bensì il raggiungimento di un obiettivo di politica del lavoro (maggiore occupazione per unità di prodotto).

Se poi teniamo a mente che il periodo passato è stato caratterizzato da una lunga ed eccezionale recessione, allora appare logico supporre che molti lavoratori si siano dovuti accontentare, in mancanza di meglio, di posti di lavoro marginali, spesso ben al di sotto delle loro qualifiche: posti di lavoro poco remunerati che hanno, quindi, anche un basso livello di prodotto per addetto (produttività del lavoro). Questo significa che nelle fasi recessive lunghe si può determinare un effetto di composizione che genera una caduta della produttività a causa della necessità per i lavoratori di trovare comunque un lavoro che consenta una qualche remunerazione.

Tutte queste considerazioni portano alla conclusione di essere molto prudenti quando si parla di produttività a livello di un’economia, perché, se è vero che una maggiore crescita della produttività può implicare una maggiore competitività e, quindi, anche una maggiore crescita dell’economia, tuttavia è anche vero il contrario, che solo una maggiore crescita dell’economia può favorire un aumento della produttività, come ben dicevano già negli anni 50 gli economisti Petrus Johannes Verdoorn e Nicholas Kaldor.

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