Questo dolore ci sarà utile: non possiamo più mentire
Vivo da trent'anni tra le montagne di Bergamo, qui dove il virus, ogni giorno, porta via le vite di amici e compaesani. Resisto costruendo un pezzetto di presente dopo l'altro, con mio figlio e mia moglie, mettendo in fila le cose che contano davvero
di Davide Sapienza
3' di lettura
Per ragioni che, comprensibilmente, possono apparire strane, la cattività di questo lungo “durante” nel quale siamo immersi da due mesi mi fa sentire allineato. Mi fa vedere diversamente l'Italia, io che con il concetto di nazione e patria non ho mai familiarizzato (a parte con quella di Universo, l'unica casa che conosco). Mi fa vedere come la gran parte di noi abbia una genuina volontà di affrontare a testa alta quello che sembrava dovercela fare abbassare. Mi fa vedere che le “contraddizioni” sono, come insegna il Tao, semplicemente estremi di un unico intero. L'ho capito grazie alla lettura di La saggezza del dubbio (1951) di Alan Watts. Sì, qui in casa sotto la grande montagna, stiamo bene, il che non esclude la preoccupazione e il grande dolore per ciò che accade intorno, perché, sapete, viviamo nelle Orobie, in provincia di Bergamo, ma sulla cuspide con la Valcamonica, la terra di mezzo che ricade nella provincia di Brescia, giusto sopra il Sebino, il lago d'Iseo.
Non ho scelto a caso questa geografia, ormai trent'anni fa. Qui mi percepisco meglio nel quotidiano vivere da goccia nel fiume, la vita che scorre. Mi sento allineato, perché la voglia di sobrietà, l'ascolto del ritmo dentro, del sempre connessi con la Terra, è la ragione per cui viviamo qui, dove è nato il nostro amato bambino. Mi sento allineato perché, come ben riassume John Trudell – il grande e compianto amico e poeta Sioux Santee – è importante sapere When Not To Lie (“Quando non devi mentire”): «Vuoi sapere qual è la verità? La verità è sapere quando non bisogna mentire». Mi sento allineato perché riassaporo le conversazioni telefoniche, in cui ci si chiama per dirci «Come stai? Volevo solo sapere quello», invece di inviarsi messaggi su trecentotrenta piattaforme con le faccine e tutto il resto e sentirsi dire «Sono impegnatissimo/a», come se qui, in montagna, pettinassimo bambolotti. Mi sento allineato, perché questi, alla fine, sono ritmi più veri e non possiamo più mentire, ora sappiamo perché, noi che la guerra non l'abbiamo subita, né fatta.
Qui, in provincia di Bergamo, inutile non ricordare che l'incubo, tra chi vive senza mentirsi, si è subito presentato per quello che era. La consapevolezza di molta gente, in alta valle e qui sull'altopiano sotto la Presolana, ha viaggiato parallelo all'esperienza diretta: amici, compaesani, tutti coinvolti. Ogni giorno, persone che conosci. Che sai che lavoro facevano. Che sai dove vivevano. Che sai quale passeggiata amavano fare, sport praticare, ristorante frequentare. Che sorriso avevano. In questo spazio, hai anche amici che fin da febbraio, da dentro gli ospedali, ti mandavano messaggi disperati: nessuno li ascoltava, a partire da chi li dirige e tu ti chiedevi, ma veramente tutto questo, proprio qui? Qui, allineato al sentire più profondo, percepivo che quell'asintomatico silenzio su di noi, presto sarebbe diventato il clamore mediatico che ci ha investito, e allora via, sul sentiero fuori casa, per vedere quell'orizzonte dallo sguardo più ampio di ogni dolore e ogni pensiero.
Ho visto meglio anche durante le partitelle in giardino con il mio meraviglioso bambino che, in quinta elementare, si trova ad affrontare qualcosa che io alla sua età leggevo sui libri: un'esperienza sconvolgente, che lui e i suoi amici sembrano affrontare con serenità, ma chissà dentro di loro che mutazioni, le geografie della psiche. E poi, ogni giorno, ricorro a un utensile da me molto amato: il taccuino. Uscire in terrazzo, scendere a giocare con Leonardo in cortile, conversare con mia moglie Cristina, riuscire nelle rare escursioni per i reportage da pubblicare sul quotidiano dove scrivo, tutto questo mi fa sentire allineato nel qui & ora – un pezzetto di presente dopo l'altro, che un giorno saranno il prossimo presente da vivere. Non mi piace chiamarlo futuro, perché quel concetto è un miraggio e anche una trappola che ci irrora di ansia. Non ne abbiamo bisogno. Meglio stare allineati con se stessi, nei silenzi, nell'attesa, anche nelle gioie – che sono tutte un grande dono, come l'amore. Costruiamo la densità del nostro presente, scegliamo i materiali giusti per rifare una casa comune, che assomigli a quella dove tutti vorremmo trovare armonia e prosperità. Sobria. Del resto, come cantavano i Beatles in Tomorrow Never Knows (“Il domani non lo sa mai”): «Deponi i pensieri, arrenditi al vuoto che risplende... Gioca la partita dell'Esistenza fino alla fine». Sì, mi sento allineato perché lì, fuori dal tracciato, ce n'è un altro da percorrere insieme, per davvero, dove regna un'armonia di selvaggia bellezza.
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