Quiet quitting, il “lavorare meno” preoccupa aziende e direttori del personale
Una scelta che porta a eseguire il minimo indispensabile nel rigoroso rispetto delle proprie mansioni e del proprio orario di lavoro
di Gianni Rusconi
3' di lettura
Letteralmente significa “abbandono silenzioso” e tutto sembrerebbe fuorché un concetto che ha a che vedere con le dinamiche organizzative e con il ripensamento profondo del modo di approcciare e vivere quotidianamente la propria professione. Dopo la “great resignation”, il “quite quitting” è diventato invece un fenomeno che rischia di avere un impatto molto concreto sui processi aziendali perché riflette la scelta di eseguire il minimo indispensabile nel rigoroso rispetto delle proprie mansioni e del proprio orario di lavoro.
Viene cioè meno la predisposizione a dedicare completamente le proprie capacità (e il proprio tempo) alla mission dell’azienda e ad essere propositivi e partecipativi rispetto ai nuovi progetti, riducendo (anche in modo drastico) la disponibilità ad aderire ai valori aziendali. Da tendenza social, il fenomeno ha così assunto le forme dell’antidoto per curare lo stress e il burnout da troppo lavoro “imponendo” un nuovo modello: fare lo stretto necessario, non dare troppa importanza ai problemi dell’ufficio ed eleggere a priorità un miglior equilibrio nella propria vita privata.
Tutto nasce la scorsa estate, quando l’hashtag “#quietquitting” lanciato su Tik Tok da un ingegnere ventenne di New York (Zaid Khan) raggiunge in pochi giorni nove milioni di visualizzazioni a colpi di “like” che ne condividono le modalità di applicazione e le motivazioni. L’essenza di questo concetto sta nell’imparare a lasciar correre, a non sovraccaricare, perché dopo due anni a dir poco faticosi (fra pandemia, guerra, crisi energetica) la cultura del lavoro e del sacrificio a tutti i costi sembra non avere più l’appeal di un tempo.
Almeno per una buona fetta di lavoratori e quelli più giovani in particolare, i più reattivi e veloci a sposare una linea di pensiero che vuole ridimensionare e correggere l’idea che la professione e la carriera definiscano il valore personale. Nell’idea del quite quitting il superlavoro viene dunque bandito, riflettendo l’insoddisfazione dei tanti che nella propria posizione lavorativa non vedono più dinamiche di crescita e non sono più disposti ad accettare condizioni penalizzati in termini di impegno e di retribuzione.
In uno scenario già profondamente cambiato con l’adozione su larga scala dello smart working, un modello a cui molti non vogliono più rinunciare, il fenomeno dell’abbandono silenzioso conosce una sorta di nuova vita (la ricerca di una situazione di comodo galleggiamento in azienda e in ufficio è sempre esistita, sotto diverse forme) e attecchisce nella percezione di chi, specialmente nel post Covid, dedica maggiore attenzione al benessere personale.
Un elemento di preoccupazione più per gli Hr manager e l’intero management, insomma, già alle prese con la necessità di garantire un migliore bilanciamento fra vita e lavoro ai propri collaboratori. Il quiet quitting, in questo senso, “rischia” di essere una soluzione a breve termine, proprio perché non affronta alla radice il problema e non combina l’opportunità di stimolare la produttività e la partecipazione degli addetti con la necessità di garantire agli stessi il miglior worklife balance possibile.
Ed è su questo aspetto che convergono alcuni consigli pratici elaborati dagli esperti di LinkedIn, a cominciare dal comunicare di più per rilevare i problemi di base e affrontarli di petto. Cercare di spiegare “perché” ci si sente in burnout, per esempio, potrebbe essere di aiuto nel corso di una conversazione con il proprio manager mentre è altrettanto importante poter stabilire dei limiti per raggiungere un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.
La pausa pranzo diventa cioè occasione per staccare la spina e mettersi in uno stato d’animo migliore facendo esercizio fisico o passeggiando all’aperto. E poi il percorso forse più difficile da seguire, che prevede la rivalutazione del proprio percorso professionale, condizionato in negativo da manager o datori di lavoro poco reattivi: se le cose non sono destinate a cambiare, osservano da LinkedIn, potrebbe essere il momento di cercare un nuovo ruolo in cui sentirsi più valorizzati.
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