Parla Robert redford

Raccontare buone storie è l'unica cosa che conta

Il divo americano racconto il “suo” festival del cinema indipendente: «Adesso il Sundace è un successo, ma alla prima edizione io e mio figlio andavamo in strada per convincere le persone a entrare nel cinema»

di Alessandra Mattanza

Robert Redford è nato a Santa Monica (Los Angeles) nel 1936

5' di lettura

Ci sono uomini che con il solo carisma riempiono una stanza. Robert Redford è uno di questi. Fisico ancora atletico a 83 anni di età, capelli tra il rossiccio e il biondo, macchiati da ciuffi grigi, occhi azzurri attenti e intensi, viso segnato dalle rughe e da un'espressività carica di emozione. E, più di tutto, quell’immutabile aria scanzonata che tanto ha contribuito a renderlo unico sul grande schermo. «Mi sento ancora elastico quando mi sveglio la mattina, per fortuna», confessa sorridendo. «Continuo ad aver voglia di camminare tra i boschi vicino a casa mia. Essere immerso completamente nella natura, per me, è una forma di meditazione vera e propria».

Dopo Old Man & the Gun, lo scorso anno, aveva detto di volersi ritirare dalle scene, almeno come attore, lasciando un piccolo spiraglio aperto per la regia. Quando lo solletico su questo punto, ammicca: «Per ora mi sono ritirato, ma mai dire mai…». Sorride in un modo che non lascia intendere se scherzi o meno. Siamo di nuovo in periodo di Sundance Film Festival: quest’anno si è svolto dal 23 gennaio al 2 febbraio.

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L'ultimo film di Robert Redford

Che cosa ricorda del suo primo Sundance Film Festival?
«Io e mio figlio Jamie andavamo per le strade per cercare di convincere le persone ad andare al cinema! (Ride, ndr). Oggi i biglietti vanno a ruba, allora quasi nessuno sembrava interessato. Ma ho sempre creduto nel potere delle storie. Proprio come in La mia Africa, uno dei film in cui ho amato recitare, dove la gente si incontra la sera attorno a un tavolo e si intrattiene raccontandosi storie. Lo stesso facevano i nativi americani, in passato è sempre stato così. Oltre ai film d’invenzione ho sempre amato i documentari, che considero nuove forme, e molto efficaci, di giornalismo autentico. Allora, quando tutto cominciò, erano ancora sottovalutati. Il successo del Sundance Institute, e poi del festival, nasce tutto dall'idealismo, dalla costanza nel credere in un sogno. In quel periodo Hollywood puntava sulla tecnologia, sui grandi effetti speciali, ma non era il mio mondo. Volevo ritrovare il potere di raccontare buone storie. È così che ho iniziato a dedicarmi al cinema indipendente, quando nessuno ancora ci credeva. È così che sono nati i primi labs, laboratori di sceneggiatura e regia, dove si collaborava insieme ad altri artisti, che poi hanno portato al festival».

Non ha mai avuto un grande rapporto con gli studios e con il glamour di Hollywood…
«È che in fondo ho l’animo di un cowboy. Per questo sono finito nello Utah: ho sempre odiato ogni forma di superficialità e ipocrisia e non riuscivo a fingere nemmeno quando si trattava di cercare un lavoro. Per Butch Cassidy and the Sundance Kid fu Paul Newman, che allora era già una star affermata, a volermi in quel ruolo, a insistere, perché credeva in me. Non l’ho mai dimenticato e ancora mi manca. Girando insieme diventammo grandi amici».

Che cosa pensa dei movimenti femministi come #MeToo?
«Sono da sempre molto legato a Jane Fonda, che è stata una pioniera in questo senso. E lei sa quanto abbia rispettato le donne. Del resto, anche al Sundance Film Festival abbiamo dedicato molto spazio alle registe e a panel di donne produttrici e imprenditrici. Sono felice che le cose stiano cambiando e penso che per noi uomini sia giunto il momento di stare seriamente ad ascoltare quello che le donne hanno da dire, di renderci conto dei nostri errori. È un processo che si sta sviluppando e che deve crescere, è importante che ci sia libertà e che tutti abbiano una voce».

Come scoprì la terra che decise di acquistare in Utah, dove adesso sorge il suo Sundance Mountain Resort?
«Mi ci avventurai mentre stavano girando Butch Cassidy and the Sundance Kid. Decisi di investire tutti i miei soldi nel 1969. Esisteva una struttura storica, ma avevo in mente di ristrutturarla e ampliarla in maniera completamente ecologica. Ho costruito da solo il primo cottage, usando pannelli solari. Questa terra intorno a Provo, circondata da meravigliose montagne, per me è sempre stata magica, come se nulla di male potesse accadermi qui. Del resto, è da sempre sacra per i nativi americani. Tutte le nostre costruzioni per gli ospiti del resort, dai cottage alle ville, sono inserite nel paesaggio e possono essere rimosse senza provocare danni all'ambiente. Poi ci sono i cavalli, di cui vado molto fiero (molti sono salvati da abusi e maltrattamenti, ndr)».

Lei è un attivista ambientalista da tempi non sospetti. Nel 1977 ha scritto perfino un libro di denuncia ( The Outlaw Trail ) sull’espansione americana nelle terre dell'Ovest, combattendo con successo contro la costruzione di una centrale elettrica nello Utah.
«Era qualcosa che avevo dentro, l'amore per le montagne e la natura. Lo sviluppai quando decisi di andare al college in Colorado, e lo feci solo per quei paesaggi: ne ero stregato. Da bambino adoravo Los Angeles perché era piena di distese verdi, di aranceti, ma crescendo l'ho vista trasformarsi a causa dello sviluppo edilizio selvaggio e dell'uso spropositato di automobili, e relativo aumento di smog, che ha reso l'aria quasi irrespirabile per me. Ho sempre avuto bisogno di grandi spazi aperti, sono sempre stati una fonte di ispirazione essenziale per me. Mi sono spinto anche nelle montagne Sierras e ho lavorato per un periodo allo Yosemite National Park, innamorandomi perdutamente della natura. Fu in quel periodo che compresi che avrei voluto vivere in un luogo il più possibile svincolato dallo sviluppo edilizio».

Lei ha avuto fin dal principio una visione molto indipendente…
«Ho sempre amato il ruolo dell'outsider, perfino quello del fuorilegge buono, quasi eroico, che non uccide le persone, ma che va contro il sistema. Come la storia del protagonista di Old Man & the Gun, che ho scoperto un giorno leggendo il New Yorker, un uomo anziano che si divertiva a rapinare banche… Da bambino sono cresciuto con la propaganda nazionalista americana, ma poi sviluppando la mia coscienza intellettuale mi sono reso conto che esisteva una “zona grigia” dove si celava la verità… A quello stesso ambito appartiene la coscienza ambientalista, che mi fa pensare che se non facciamo qualcosa attivamente, e subito, contro il riscaldamento climatico e l'inquinamento di aria e oceani, non ci sarà un futuro per i nostri figli e i nostri nipoti. È importante agire fin dalle scuole, per creare consapevolezza nei bambini. L'infanzia che abbiamo è fondamentale per gli adulti che saremo».

Ha mai temuto di invecchiare?
«Assistere a ogni fase della vita è uno spettacolo avventuroso e interessante. Alla mia età, sono molto curioso di vedere quello che posso ancora fare. Fin da piccolo ho amato gli sport e sono sempre stato particolarmente atletico, tanto che nei film ho insistito per fare quasi tutto il lavoro degli stuntman, quando possibile. Cerco di tenermi in forma, credo che sia il mio modo migliore per combattere il tempo che passa. E so bene che il mio equilibrio è fatto di attività fisica, energia intellettuale e desiderio artistico di creare».

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