Ratti, le stampe africane gioiello made in Italy
Lo storico setificio comasco ha avviato la produzione dei tipici Wax: lo sguardo a mercati come il Ghana ma anche a quello europeo
di Giulia Crivelli
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Nel libro La trama del mondo, appena pubblicato da Utet, Kassia St Clair racconta la storia dei tessuti, partendo da fibre fossili e abiti preistorici. Forse in un prossimo saggio l’autrice si dedicherà alla storia di un particolare tipo di tessuti, quelli stampati. Tra questi dovrebbero avere un posto d’onore quelli a stampa Wax, che hanno una storia molto curiosa: sono diffusi principalmente in Africa, ma per molti decenni sono stati prodotti quasi esclusivamente in Olanda. Un monopolio durato troppo tempo e intaccato in anni recenti dalle aziende cinesi, come naturale conseguenza della “colonizzazione economica” di buona parte dell’Africa da parte della Cina.
A scalfire questo duopolio sta provando Ratti, storica azienda comasca (fu fondata nel 1945), uno dei maggiori player mondiali nella produzione di tessuti e accessori di alta gamma per abbigliamento, cravatteria, camiceria, mare e arredamento. «La pandemia ha costretto tutti a ripensare strategie di breve e medio termine – racconta Sergio Tamborini, amministratore delegato di Ratti –. Ma la decisione di entrare nel mercato dei tessuti Wax risale a prima della crisi sanitaria ed economica. Siamo sempre alla ricerca di nuove opportunità di business, anche perché il nostro settore, la moda e l’alto di gamma, sono per definizione in perenne cambiamento. Dobbiamo consolidare i segmenti nei quali siamo leader e allo stesso tempo intuire quali possono essere le strade verso il futuro».
Da qui la decisione di applicare il know how aziendale a questi particolari tessuti, caratterizzati anche dalla mancanza di differenza nell’intensità del colore dei lati anteriore e posteriore. Come tutti i progetti, ha richiesto qualche anno di messa a punta, ma alle edizioni di settembre di MilanoUnica e Premiere Vision, le più importanti fiere europee, Ratti ha proposto la prima vera collezione di tessuti Wax. «Per ora è una nicchia di mercato che vale circa 500mila euro (il fatturato di Ratti del primo semestre è stato di 36 milioni, ndr) - spiega Tamborini –. Ma pensiamo abbia molte potenzialità sia per l’export verso alcuni Paesi africani, come il Ghana, sia per l’Europa, perché le seconde e successive generazioni di origine africana sentono la necessità di tornare alle origini e i tessuti Wax fanno sicuramente parte di questa ricerca». Il know how è quello dell’azienda comasca, ma lo stile, ha deciso fin dall’inizio Tamborini, non doveva essere un’interpretazione squisitamente italiana o europea.
«L’idea è fare due collezione all’anno e per il design ci affidiamo in particolare a Gisela Ntsama, neolaureata e originaria del Camerun, arrivata in Italia per studiare fashion e design all’Accademia delle belle arti di Bologna». Le collezioni che vengono presentate ai buyer delle fiere internazionali alle quali Ratti partecipa sono made in Italy, ma Tamborini ha anche avviato progetti direttamente in Africa. «Collaboriamo con la Ethical Fashion Initiative delle Nazioni Unite e stiamo avviando una produzione in Burkina Faso. Strategiche anche le partnership con distributori locali o che hanno esperienza dei diversi mercati, molto difficili da penetrare a causa di dazi e burocrazia».
Quanto ai clienti dell’alta gamma di Ratti, tra i quali ci sono la maggior parte dei marchi italiani, francesi e americani, Tamborini è più cauto: «È vero che ciclicamente sulle passerelle si vedono collezioni ispirate all’Africa. Ma è spesso un fenomeno di stagione e rischia addirittura di non essere ben accolto da chi ha radici africane. Anche perché, non dimentichiamolo mai, non dovremmo parlare di Africa in modo generico: è un continente composto da 54 Stati e ogni Paese ha tradizioni culturali e quindi di abbigliamento diverse e non tutti, tra l’altro, amano i Wax». L’amministratore delegato di Ratti ha intravisto un mercato, certo. Ma c’è dell’altro: «Si parla sempre di innovazione e anch’io adoro l’idea di introdurre nuovi modi di pensare o fare le cose. Credo quindi che aprirsi a universi di colore e stili diversi da quelli occidentali possa aiutarci a varcare non solo i confini geografici, ma quelli della mente».
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