La Consulta: sì a permessi premio per condannati per mafia, terrorismo e stupro
Dei 957 mafiosi sottoposti al regime carcerario, potranno beneficiare solo gli «ex mafiosi» stabiliti dal tribunale di sorveglianza. L’allarme dei consiglieri del Csm Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita
di Ivan Cimmarusti
3' di lettura
Non solo i 957 condannati all’ergastolo ostativo per mafia (1.250 il totale degli ergastolani in regime ostativo). Potranno accedere ai permessi premio anche chi sta scontando pene minori per mafia, terrorismo, violenza sessuale aggravata, corruzione e in generale i reati contro la pubblica amministrazione. Tutti reati che sino ad oggi impedivano la concessione di qualunque beneficio penitenziario nel presupposto della pericolosità sociale del condannato. Questo il senso della sentenza con cui la Consulta ha ritenuto incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario.
La decisione, di forte impatto, riguarda anche i mafiosi in regime di ergastolo ostativo. Loro potranno accedere ai permessi premio, pure se non collaborano con la giustizia, ma a condizione che sia provato che abbiano reciso i loro legami con la criminalità organizzata e purché sia dimostrata la loro partecipazione al percorso rieducativo. La loro pericolosità non sarà più presunta dalla legge, ma andrà verificata, caso per caso, dai magistrati di sorveglianza, come avviene per tutti gli altri detenuti.
Dopo la Corte europea dei diritti dell’Uomo anche la Corte costituzionale dà una spallata all’ergastolo “ostativo”, quello che impedisce la concessione di benefici a mafiosi - ma anche ai terroristi e ai responsabili di altri gravi reati - se non fanno i nomi dei loro sodali, introdotto all’indomani della strage di Capaci, proprio per indurre boss e gregari a collaborare con lo Stato.
Ma andiamo con ordine. In Italia oggi ci sono 1.250 condannati al carcere ostativo, 957 ergastolani per crimini di mafia, mentre sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione. In un anno (2017-2018) 111 membri di associazioni mafiose e 7 testimoni hanno scelto di collaborare.
Al meccanismo “preclusivo” disciplinato dall’Ordinamento penitenziario, la Corte Costituzionale ha sottratto i soli permessi premio, il primo gradino dei benefici penitenziari. E lo ha fatto stabilendo la incostituzionalità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento «nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata - come spiega il comunicato della Corte -. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo».
La sentenza si è limitata ai permessi premio e non agli altri benefici penitenziari, perché era stata investita su questo specifico aspetto dalla Cassazione e dal tribunale di sorveglianza di Perugia, cui si erano rivolti due detenuti , Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, che si erano visti negare il via libera a incontrare i loro familiari.
L’allarme più forte arriva da due consiglieri del Csm, in un recentissimo passato in prima linea nella lotta ai clan, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. «La sentenza della Consulta apre un varco potenzialmente pericoloso, ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo. Dobbiamo evitare che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni ’92-’94», avverte Di Matteo, che si augura che «la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo».
Ardita, oggi presidente della Commissione penale del Csm sull’esecuzione penale e la sorveglianza, vede nella decisione il rischio di gravi conseguenze, a partire dalla «pressione» che le organizzazioni mafiose potrebbero esercitare sui magistrati di sorveglianza. Anche se, spiega, la sentenza «non rappresenta di per sé il superamento di quel modello», vale a dire l’assoluta chiusura nella concessione dei benefici ai mafiosi che non collaborano, ma «rimette al legislatore il compito di modulare in concreto l’ampiezza di questa innovazione». Ecco perché il Parlamento deve «mantenere fermo il sistema della prevenzione antimafia» e «impedire che quella che dovrebbe essere una eccezione diventi una regola, che va a beneficio di personaggi capaci di riorganizzare Cosa nostra e non rivolta a chi sta fuori dalla organizzazione».
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